Mercoledì scorso è stato pubblicato il dato annuale dell’inflazione (CPI) negli Stati Uniti relativo a luglio, che si è attestato al 2,9%, in calo rispetto al 3% di giugno e al di sotto delle aspettative degli investitori, fissate al 3%. Su base mensile, l’inflazione è aumentata dello 0,2%, rispetto al -0,1% del mese precedente.



Andando a spacchettare le varie componenti, notiamo subito che la parte energetica è rimasta invariata mensilmente, mentre la componente al netto del cibo ed energia è incrementata dello 0,2%, rispetto allo 0,1% dello scorso mese, e annualmente si è attestata al 3,2%, in diminuzione rispetto al 3,3% precedente. La componente attualmente più importante, quella dei servizi, ha registrato un incremento dello 0,3%, in accelerazione rispetto allo 0,1% e allo 0,2% dei mesi scorsi, suggerendo un possibile segnale di ripresa dopo le precedenti letture che avevano fatto sperare in un raffreddamento di questa componente, finora la più resiliente e appiccicosa. Tra i servizi, gli affitti sono aumentati dello 0,4% mensile, rispetto allo 0,2% del mese precedente, mentre i trasporti sono anch’essi incrementati dello 0,4%, mentre il mese precedente avevano registrato un -0,5%. Solamente la componente dei servizi di assistenza medica è diminuita, attestandosi al -0,3% mensile.



L’inflazione continua quindi la sua discesa, seppur in modo moderato, ma la componente dei servizi dovrà riprendere la tendenza ribassista mostrata a maggio e giugno se si vuole vedere una riduzione più stabile dei prezzi al consumo. Nella prossima lettura dell’inflazione potremmo notare ancora un rallentamento su base annuale, causa effetto base, ma sarà importante monitorare le letture di fine anno, le quali potrebbero molto probabilmente vedere un rimbalzo, al netto di variazioni negative significative alle componenti interne.

Grafico 1 – Consumer Price Index (varazione % annuale)



Il dato è stato rilasciato in un contesto finanziario particolarmente delicato: poco più di 10 giorni fa, la paura degli investitori americani ha spinto il Vix, l’indice di volatilità dell’S&P 500, a livelli che non si vedevano dal 2020, provocando un sell-off breve ma intenso sui mercati azionari americani e internazionali. Improvvisamente, la parola “recessione” è tornata di moda e l’indice che misura il sentiment della paura sui mercati è schizzato alle stelle, nonostante non ci fosse alcun dato macroeconomico eclatante che giustificasse tale reazione.

Tale crash è stato poi attribuito al rafforzamento dello yen rispetto a valute come il dollaro e l’euro. L’evento è stato infatti prettamente di natura meccanica e riconducibile alle pratiche di carry trade che molti investitori, sia istituzionali che non, hanno adottato negli ultimi anni. Il carry trade consiste nel prendere a prestito una valuta a basso costo, in questo caso lo yen, per acquistare asset denominati in euro o dollari, che offrono rendimenti superiori agli interessi pagati. Tuttavia, questo meccanismo funziona solo finché la valuta presa a prestito rimane debole; quando essa si apprezza, gli investitori sono costretti a liquidare le loro posizioni per coprire il prestito.

Mercoledì 31 luglio, la Banca del Giappone ha innalzato i tassi d’interesse dallo 0,10% allo 0,25%, scatenando un forte rafforzamento dello yen, che da anni soffriva di una significativa svalutazione a causa della politica monetaria ultra-accomodante della BoJ. Questo ha portato molti investitori a dover affrontare margin-call sui propri conti, causando ulteriori sell-off di asset e innescando un effetto domino.

Questi momenti di panico hanno portato il mercato a ipotizzare che la Federal Reserve potesse ridurre i tassi d’interesse fino a cinque volte entro la fine dell’anno, rispetto ai tre tagli previsti prima del sell-off. Attualmente, si prevede nuovamente un taglio di tre tassi, ma la probabilità di un quarto taglio entro la fine dell’anno è rimasta al 41,2%.

L’unico dato macroeconomico statunitense che potrebbe aver contribuito, seppur in minima parte, all’inizio di questo sell-off è quello relativo alla disoccupazione. A luglio, il tasso di disoccupazione si è attestato al 4,3%, superando le aspettative degli investitori e in aumento rispetto al 4,1% del mese precedente. Questo dato potrebbe aver suscitato nei mercati un segnale di allarme riguardo una possibile crisi nel mondo del lavoro, la quale, se continuasse a peggiorare, potrebbe portare a un rallentamento economico. Inoltre, è tornata alla ribalta la famosa regola di Sahm, secondo cui l’economia tende a entrare in recessione quando la media mobile trimestrale del tasso di disoccupazione aumenta di 0,5 punti percentuali rispetto al minimo dei 12 mesi precedenti. Con l’ultima lettura al 4,3%, l’indicatore della regola di Sahm ha iniziato a destare preoccupazione.

Grafico 2 – L’indicatore della regola di Sahm

La Federal Reserve, durante l’ultimo appuntamento, ha mostrato come il primo taglio dei tassi è pressoché scontato, grazie all’inflazione che sta proseguendo la sua traiettoria disinflazionistica, ma vorrà avere ancora conferme per affermare che i prezzi al consumo potranno effettivamente stabilizzarsi. Durante il prossimo appuntamento Fomc, previsto il 18 settembre, sarà cruciale analizzare le proiezioni della Banca centrale, dato che potranno esser oggetto di diverse revisioni. La Fed, nell’ultimo Summary of Economic Projections, prevedeva la disoccupazione al 4% entro fine anno, oltre a scontare solamente due tagli entro fine 2024: sarà quindi importante notare se modificherà queste proiezioni oppure no. Infine, anche le proiezioni sulla crescita economica saranno fondamentali. Attualmente la crescita economica americana rimane stabile e robusta, con l’ultima lettura del Pil trimestrale annualizzata al 2,8%, ma sarà cruciale notare le previsioni della Fed per i prossimi trimestri.

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