La strage di Kerman, in Iran, riporta l’Isis in gioco sulla scena mediorientale. L’attentato ai danni dei nemici giurati di Teheran, presi di mira in quanto sciiti, ha permesso allo Stato islamico, che per ora nell’area ha una presenza comunque minoritaria in Siria, di tornare al centro dell’attenzione internazionale, sfruttando il contesto della guerra che si sta combattendo a Gaza. Se gli Stati arabi non daranno risposte adeguate all’intervento di Israele, spiega Marco Di Liddo, direttore del Cesi, Centro studi internazionali, nella loro opinione pubblica potrebbe crearsi uno spazio per la propaganda dell’Isis, che punta a scenari più ampi di quelli della singola Palestina.
L’Isis attacca non solo i nemici sciiti, ma anche il sostegno di Teheran e di formazioni filoiraniane come gli Hezbollah a gruppi sunniti come Hamas. Lo Stato islamico vuole prendersi anche la scena della Palestina?
È una cosa normale che una organizzazione estremista sunnita come l’Isis abbia negli sciiti il nemico numero uno. Non dobbiamo dimenticare che la prima competizione all’interno del mondo musulmano e quindi mediorientale è sempre quella fra sunniti e sciiti. Gli uni considerano gli altri dei falsi musulmani, degli apostati. L’attentato messo a segno in Iran non viene organizzato in poco tempo, ha bisogno di un lavoro certosino: non bisogna solo individuare l’evento e il luogo, occorre un’opera di intelligence, inviare persone sotto copertura per fare un sopralluogo. Probabilmente è da parecchio tempo che la leadership di Isis stava pensando a questo tipo di attacco.
Quindi lo stavano preparando già da prima del 7 ottobre?
Sì. È un attacco che non può essere stato pianificato in pochi mesi, perché bisognava realizzarlo in un luogo molto sorvegliato, come la tomba del generale Soleimani, in una occasione pubblica e nel principale Paese sciita al mondo: il teatro più complicato. L’azione è una vendetta contro quello che Soleimani e l’Iran hanno fatto nel contesto siriano e parzialmente iracheno. La sconfitta dell’Isis in Siria è nata dalla convergenza di tanti attori: sia Hezbollah che l’Iran hanno avuto un ruolo non trascurabile in questo.
Ora però il Medio Oriente sta vivendo un momento di grande tensione per la guerra Hamas-Israele: quanto ha contato questo aspetto nella realizzazione dell’attentato?
L’attentato si carica di altri significati a causa di quello che sta succedendo. Nel momento in cui la questione palestinese torna a essere centrale nel dibattito internazionale, con una copertura mediatica importante, l’Isis prova a ritagliarsi uno spazio, fermo restando che la capacità di penetrazione dell’Isis nel contesto palestinese non è mai stata profondissima come in altre situazioni. C’era già Hamas, realtà fortemente radicata tra i palestinesi, per lo Stato islamico c’erano spazi di manovra limitati. La critica ad Hamas da parte dell’Isis dal suo punto di vista è giustificata: se considerano gli sciiti il peggior nemico sulla terra, di cui fanno parte apostati e miscredenti, diventa inaccettabile che un’organizzazione estremista sunnita preferisca rivolgersi agli iraniani anziché ai fratelli sunniti.
Come l’Isis potrebbe ritagliarsi uno spazio nel contesto palestinese?
Potrebbe sfruttare l’enorme quantità di morti civili che sta facendo Israele e quindi il malcontento, il dolore, la rabbia che la campagna militare sta suscitando nel mondo palestinese, sunnita e arabo in generale.
Potrebbe sfruttare anche l’indebolimento di Hamas, colpita duramente dall’IDF?
Sul breve periodo Hamas uscirà indebolita perché sta affrontando l’ira militare di Israele. Quando ha pianificato il 7 ottobre, però, molto probabilmente aveva previsto che ci sarebbe stata una prima fase in cui avrebbe dovuto affrontare questo urto. La partita giocata da Hamas è strategica, è disposta ad accettare una sconfitta tattica in nome di un guadagno in un periodo più lungo: preparare una nuova generazione di miliziani e combattenti, cercare di riportare la questione palestinese al centro del dibattito mediorientale e danneggiare il processo di avvicinamento tra Israele e mondo sunnita. Nel breve periodo hanno messo in conto di dover incassare.
Che spazio potrebbe avere allora l’Isis? Potrebbe chiedere ad Hamas di appoggiarsi allo Stato islamico invece che agli iraniani?
Potrebbe fare un tentativo: parliamo di realtà fluide, ci sono possibilità di sinergie. Però il fronte palestinese è molto peculiare, ha nella dimensione locale un elemento importante. Ci sono realtà minoritarie palestinesi che dialogano già con il fronte jihadista globale. L’Isis comunque in Palestina non è forte come in altre zone del mondo.
Potrebbe allearsi con Hamas in nome dell’unità sunnita?
È difficile dirlo. Se si entra a far parte dello Stato islamico non è che ci sia allea, si diventa wilayat, una provincia, si diventa subalterni. L’Isis potrebbe cercare un suo spazio ma non tanto in Palestina: quando si parla di jihadismo internazionale non dobbiamo aumentare troppo il peso della questione palestinese in sé, ma l’effetto propagandistico che genera. La peculiarità dell’Isis è quella di creare un parastato in grado di avere una presenza territoriale forte. Oggi sono molto presenti in Africa dove hanno creato delle reti che controllano il territorio. Per loro sarebbe molto più complicato fare questo discorso di territorializzazione in Palestina. Però se gli Stati arabi non producono una reazione nei confronti di Israele che sia ritenuta soddisfacente dalla loro opinione pubblica, si produce un malcontento nel quale la propaganda dell’Isis può diffondersi. La Palestina in questo senso può giocare un ruolo importante per aumentare la presenza dell’Isis in teatri molto più significativi.
L’orizzonte dell’Isis, quindi, è un po’ più ampio di quello della questione palestinese?
Di per sé la Palestina per lo Stato islamico non è nulla di più di quello che è stata per decine e decine di anni per la politica araba in generale: una questione strumentale.
Ma lo Stato islamico dove è presente adesso?
Hanno il Khorasan in Afghanistan, hanno ciò che è sopravvissuto fra Siria e Iraq, qualcosa nel Sud-Est asiatico, tra Malesia e Indonesia, ma le loro roccaforti principali sono in Africa, anche se il jihadismo africano è sui generis, con una forte impronta locale e regionale.
Mentre l’Isis torna sulla scena, il governo israeliano ha abbozzato cosa vuole fare a Gaza dopo la guerra: gestirà la sicurezza ma per il resto lascerà l’amministrazione degli affari civili ai palestinesi che non abbiano avuto a che fare con Hamas, e la ricostruzione a una forza multinazionale. Un piano ancora approssimativo?
È un piano che lascia molto il tempo che trova, dichiarazioni fatte sotto la pressione internazionale che chiede a Israele che cosa vuol fare a Gaza dopo l’operazione militare. Gli israeliani hanno dovuto produrre un documento di indirizzo, ma non è ancora qualcosa di percorribile.
Se dicono di voler lasciare l’amministrazione ai palestinesi, perché li stanno allontanando dalla Striscia?
Esatto. Siamo di fronte solo a dichiarazioni che hanno dovuto fare per forza di cose.
(Paolo Rossetti)
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