In questi giorni di lutto per la scomparsa di Diego Armando Maradona, il mondo ha avuto modo di conoscere la natura del rapporto che legherà per sempre il Pibe e Napoli. Un rapporto amoroso, gioioso, indissolubile, reso eterno dal ricordo dei successi ottenuti, poi dalla lontananza forzosa, ora dalla morte.

Maradona arrivò a Napoli – e che arrivo, in uno stadio gremito solo per salutarlo – il 5 luglio 1984 e lasciò la città, quasi di nascosto, nella notte tra l’1 e il 2 aprile 1991. Nessuno ha scritto di quegli anni dal punto di vista della città, del contesto storico e politico, di come fu possibile, per una società di calcio altalenante tra la serie A e la B, acquistare dal Barcellona per la stratosferica cifra di 13 miliardi di lire il giocatore numero uno al mondo. Senza contare che molti soldi furono necessari per costruirgli intorno una squadra all’altezza, e diventare in pochi anni una realtà vincente.



Qualche giorno fa ho raccontato dei drammatici giorni successivi al terremoto del 23 novembre 1980, e mi apprestavo a raccontare cosa accadde “dopo” che i volontari lasciarono le zone colpite dal sisma. Si tratta di una storia non breve, che copre l’arco di un decennio, almeno fino ai mondiali del 1990. Un decennio che trasformò la parte del Mezzogiorno più debole – parlo di Napoli, della Campania e della Basilicata – in una delle realtà, politicamente ed economicamente parlando, più importanti del Paese.



Un fiume di denaro, oltre 51.000 miliardi di lire (circa 23 miliardi di euro), fu speso in quegli anni. Doveva servire alla ricostruzione delle zone distrutte, ma il programma per la ricostruzione si allargò interessando zone lontane dal cratere e dove il terremoto aveva procurato al massimo uno spavento. Non ci si limitò a ricostruire quello che il sisma dell’80 aveva buttato giù o danneggiato irrimediabilmente, ma furono considerati essenziali alla ricostruzione nuove scuole, parchi, palazzetti dello sport, autostrade, metropolitane, ed ogni altro ben di Dio. Così il terremoto da tragedia si trasformò in manna dal cielo.



Per spendere presto questi soldi – tema come si vede ricorrente nella storia del nostro paese – furono decise procedure straordinarie e nominati commissari con pieni poteri. Furono sospese le gare e affidati a consorzi d’impresa autocostituiti in fretta e furia appalti milionari. Per la prima volta furono concesse addirittura anticipazioni del 40% sul valore delle commesse. Per non contare i contributi a fondo perduto elargiti a man bassa a chi si proponeva di insediare nelle nuove aree industriali fabbriche di qualsivoglia tipo.

Ben presto la tragedia si trasformò in euforia collettiva. Questo flusso di denaro – attraverso mille rivoli – raggiunse un po’ tutti. È in questo clima che la società Calcio Napoli decise di comprare Maradona. Nell’azionariato della società che gestiva la squadra cittadina era presente il Gotha dell’imprenditoria napoletana, da Punzo a De Luca, da Brancaccio a Fiore. Nei due decenni precedenti avevano dominato incontrastati Achille Lauro e il figlio Gioacchino. Ma nel 1969 il giovane costruttore Corrado Ferlaino li aveva spodestati.

Ferlaino era quello che oggi definiremmo un immobiliarista. Acquistava aree in posti strategici, ne otteneva il cambio di destinazione, costruiva case e le vendeva. Non era il solo, in quegli anni. Lo sviluppo urbanistico – non sempre condotto con trasparenza – aveva prodotto una crescita convulsa e indiscriminata della città, deturpando colline e panorami mozzafiato, ingolfato piccoli quartieri e intasato la rete dei servizi, insomma quella vicenda non proprio edificante che sarà raccontata in Mani sulla città, uno storico film di Francesco Rosi. Dopo il terremoto Ferlaino si dedicò ai lavori della ricostruzione e la società calcio Napoli divenne il “salotto buono” della città. Ne facevano parte quasi tutti i costruttori napoletani, molti politici (come il giovane Mastella), illustri professionisti.

La scelta di “investire” apparve a molti di loro il giusto riconoscimento alla città, che meritava un “ristoro” – diremmo oggi – viste le sofferenze subite. Napoli era baciata da un’improvvisa ricchezza.

Insomma non fu proprio un caso che in quegli anni intorno alla squadra si strinse un’alleanza – Pasquale Saraceno la definì “il blocco sociale ed economico più importante dall’Unità d’Italia” – che aveva molte ambizioni, e non solo in campo calcistico.

Sulla tribuna centrale dello stadio San Paolo, mentre si guardava giocare Maradona, gli imprenditori, i politici, i professionisti, parlavano di affari, discutevano di progetti, facevano accordi. Anche la povera gente, quella dei quartieri più poveri, accorreva allo stadio (allora conservava una capienza di 82mila posti) grazie ai prezzi modici. Come in una moderna riedizione del Colosseo e dei giochi circensi, ricchi e plebei amavano tifare per la stessa squadra, ammiravano i propri campioni come moderni gladiatori. La ricchezza prodotta in quegli anni si trasformava la domenica in un rito collettivo. Era spettacolo, emozioni, vittorie.

Quegli anni sono ricordati a Napoli anche per l’emergere di una nuova classe dirigente che ben presto prese il sopravvento anche sul piano nazionale. Infatti negli stessi anni in cui il Napoli guidato da Maradona conquistava titoli sui campi di calcio di mezza Europa, i politici napoletani conquistarono posti sempre più importanti a livello nazionale. Per un lungo lasso di tempo la città contò su un numero enorme di ministri e sottosegretari (Gava, Scotti, Cirino Pomicino, Di Lorenzo, Galasso, Ciampaglia e molti altri) cosa che non era mai successa e che mai più si sarebbe ripetuta nella storia.

La vita pubblica della città era scandita da ritmi preordinati, c’era la partita della domenica e poi l’immancabile convegno del lunedì, dove i ministri con tutti i parlamentari, le forze sociali, gli uomini di cultura discettavano di grandi progetti per il futuro. Uno di questi era pomposamente chiamato “Il Regno del Possibile” e riguardava il completo rifacimento dei quartieri storici, ancora abitati dalla fetta più povera della popolazione.

Due conseguenze furono subito evidenti. Da un lato la scomparsa delle forze di opposizione. Ad esempio il Pci, che pure nel 1980, pochi mesi prima del terremoto, era ancora il primo partito della città con oltre il 32% e guidava l’amministrazione comunale con il sindaco Valenzi, iniziò un inesorabile declino che lo portò a raccogliere un misero 12% nelle amministrative del 1992. Dall’altra parte questo uso disinvolto di soldi pubblici accrebbe – com’è facile immaginare – gli appetiti della camorra, che pretese e ottenne, anche grazie all’alleanza con frange del terrorismo locale, un ruolo non secondario nella spartizione della torta, come dimostrò successivamente la commissione parlamentare d’inchiesta.

Poi arrivarono i mondiali del ’90 e una nuova ondata di finanziamenti pubblici. Fu facile riproporre il meccanismo che aveva apparentemente ben funzionato con il terremoto. In poco più di 18 mesi furono spesi (meglio dire sperperati) altri 600 miliardi, il 10% del budget complessivo che lo Stato aveva messo a disposizione di Luca Cordero di Montezemolo, messo dal governo Andreotti a capo dell’organizzazione.

Ecco l’elenco delle spese sostenute a Napoli: una copertura metallica dello stadio San Paolo, costata 120 miliardi, orribile quanto inutile; la realizzazione del terzo anello, dichiarato inagibile appena ci si rese conto che ad ogni gol propagava “onde sismiche” in tutto il quartiere; un sottopassaggio che si riempiva d’acqua anche quando non pioveva; un parcheggio per migliaia di auto, mai entrato in funzione; e, dulcis in fundo, una nuova metropolitana, la linea tranviaria rapida, inaugurata per finta il primo giorno dei mondiali e ancora oggi in costruzione.

È abbastanza evidente che le cose non potevano che finire male per la città, per i politici che la rappresentavano, e purtroppo anche per la squadra. Nel 1991 fu istituita una commissione d’inchiesta parlamentare che concluse i suoi lavori con un duro atto di accusa, avendo accertato una quantità enorme di sperperi ed inefficienze. Alle politiche del 1992 gli elettori del Nord premiarono la Lega di Bossi, che raccolse la rabbia dei contribuenti per quanto era emerso dall’inchiesta. Nel 1993 la Tangentopoli napoletana defenestrò definitivamente i potenti che per oltre un decennio avevano fatto in città il bello e cattivo tempo.

Anche la società sportiva segui le sorti della città. Dopo l’ultimo scudetto conquistato nel 1990 Maradona scappò da Napoli, alle prese con i problemi derivanti dall’uso di droga.

Ferlaino e i suoi soci ebbero negli anni successivi seri problemi a far quadrare i conti. Iniziò un periodo di decadenza che si concluse con il fallimento della società nel 2004 e la retrocessione in serie C. Di quegli anni rimangono ancora oggi uno stadio ancora in larga parte mal messo, il Centro sportivo Paradiso di Soccavo, dove si allenava il Napoli di Maradona e che oggi è un rudere in totale abbandono. La linea tranviaria rapida si fa ancora finta di costruirla, il parcheggio sotterraneo è definitamente sbarrato e il sottopasso si continua ad allagare.

C’è chi ha scritto che Maradona avrebbe reso vincente la città. Ma faremmo bene a ricordare anche il contesto dove tutta questa storia ebbe luogo. Sono queste le occasioni in cui sarebbe giusto non essere troppo indulgenti con il nostro passato. Se Maradona era un campione indiscusso, questo non vale per proprietà transitiva anche per i napoletani. Come del resto è per il sole, il mare e il Vesuvio. Se Maradona non si discute, non si può non discutere della storia terribile di quegli anni.

 (2 – continua)