Che fine hanno fatto quei ragazzi che avevano vent’anni o poco più quella sera del 23 novembre 1980? Che vite hanno vissuto? Quanto quella generazione è stata segnata da quella vicenda? I giovani – soprattutto dopo momenti di rottura come può essere un terremoto di quelle dimensioni – sono la leva della rinascita. Vale sempre, come vale oggi dopo la crisi prodotta dalla pandemia.
Anche per questo motivo abbiamo cercato, a distanza di più di 40 anni, di dare una lettura degli avvenimenti che seminarono tanta distruzione in quei territori del nostro Mezzogiorno e a ricostruire le scelte principali – politiche e di sistema – che hanno segnato gli anni immediatamente successivi. La tragedia, i morti, la distruzione, la solidarietà. E poi la ricostruzione, le leggi, gli strumenti “creativi” per fare presto e infine i soldi. Tanti soldi. Circa 54mila miliardi di lire, tradotti in euro oltre 27 miliardi dell’epoca, circa 60 miliardi di oggi, senza che nulla cambiasse. Anzi, come sappiamo, il divario con la parte più forte del Paese è aumentato.
Anche altri studiosi hanno indagato in questi anni sullo stesso tema. Proprio ieri a Napoli nella sede della Fondazione Banco di Napoli è stato presentato un complesso lavoro di analisi a cura di numerosi ricercatori delle principali università del Mezzogiorno (lavoro coordinato da G. Gribaudi, F. Mastroberti e F. Senatore) intitolato Il terremoto del 23 novembre 1980. Luoghi e memorie che ha avuto come obiettivo quello di mettere a fuoco “il terremoto come evento periodizzante della storia e catalizzatore di trasformazioni”.
La “generazione dell’80” sia per numero che per ruolo ha avuto un peso decisivo sul governo del Mezzogiorno in questi ultimi quarant’anni. Possiamo dire, senza rischiare di essere smentiti, che quella generazione corrisponde esattamente alla classe dirigente che ha poi governato il Sud. Nelle amministrazioni pubbliche, nei mille gangli dello Stato, dalla magistratura alla sanità, dalle istituzioni culturali di ogni tipo all’economia. La domanda che ci poniamo oggi è dunque la seguente: che insegnamento ha tratto da quella vicenda quella generazione? Ed è possibile ipotizzare che quella notte sia stata decisiva per molti di essi e abbia segnato profondamente la storia del Mezzogiorno?
La prima risposta riguarda a mio avviso il peso che il terremoto ha avuto su quella stessa generazione. Come di fronte ad ogni evento traumatico, inaspettato, distruttivo – una guerra, un’epidemia, un cataclisma naturale – le sorti di una comunità dipendono dalla capacità di reagire e dalla voglia di ricostruire. Sono numerosi gli esempi in questo senso. Eppure il sogno della grande ricostruzione – o se volete, la capacità di cogliere una grande opportunità – fu miseramente tradito. Pochi anni prima il Friuli aveva subito un violento terremoto con danni gravissimi ma lo spirito di quella terra – e non solo dei giovani – spinse verso una veloce ricostruzione. Perché da noi le cose andarono così diversamente?
Gli stessi giovani che pure si erano distinti nei giorni immediatamente successivi al sisma per generosità e impegno divennero presto oggetto di un’attenzione morbosa da parte del governo e dei partiti dominanti. Forse proprio perché preoccupati per le proteste e dalla forza che essi avevano esibito in quei giorni, prevalse l’idea di frenare tutta quella energia. Piuttosto che incanalarla e usarla per la rinascita si preferì assopirla, renderla innocua, depotenziarla. In un certo senso si preferì che allo spirito di ricostruzione si insinuasse il principio che il terremoto era l’occasione per lamentarsi di quella sfortuna, di invocare aiuto e di lasciarsi assistere.
Il primo provvedimento che fu assunto a favore dei giovani delle zone terremotate fu quello dell’esonero dalla leva militare. Tutti coloro che dovevano presentarsi in caserma da quel novembre del 1980 in poi risultarono sollevati da tale compito. “I soggetti interessati al servizio militare, residenti nei comuni di cui al comma 1 … sono posti in licenza illimitata senza assegni in attesa di congedo” recitava la norma ad hoc contenuta nella legge per le zone terremotate. L’argomento usato per motivare il provvedimento fu quello che non si potevano sottrarre forze giovani alla ricostruzione e allontanare i figli maschi dalle famiglie. Come spesso accade in Italia, il provvedimento pensato per una fase di emergenza fu prorogato per quasi 20 anni, fino a consentire a più di un milione di giovani meridionali di evitare il servizio militare.
Quasi contemporaneamente negli stessi anni furono aperte le porte – per la prima volta senza un concorso pubblico – delle amministrazioni locali e statali ai giovani delle liste della 285. La legge 285 del 1977 era stata una risposta alla crisi del collocamento e alla nascita delle liste di lotta dei disoccupati nella città di Napoli. Con quella legge di riforma si cercò di garantire il diritto al lavoro attraverso lo scorrere di una graduatoria pubblica e non per vie clientelari. Violando lo spirito della legge migliaia di giovani diplomati e laureati entrarono nei ranghi della pubblica amministrazione con mansioni molto più basse rispetto ai loro titoli di studio. Si calcola che in pochi anni oltre 600mila giovani furono assunti grazie alla 285. Inutile dire che bastò aspettare lo svolgimento di qualche concorso interno per far valere alla stragrande maggioranza di essi il titolo di studio e conquistare ruoli apicali.
Così accadde che quei giovani, evitato il servizio militare, entrati senza concorso nella pubblica amministrazione, scalata dall’interno la gerarchia, assunsero il controllo di gran parte degli uffici dello Stato nel Mezzogiorno. Sono diventati per tre decenni l’ossatura della nostra amministrazione pubblica.
Infine, dopo anni di onorato servizio, molti di essi hanno goduto dei vantaggi di “quota 100”, cioè dello scivolo pensionistico ideato dal governo nel 2018. La grande fuga dalla pubblica amministrazione di cui si parla oggi riguarda proprio questa generazione, che entrata nei primi anni 80 ha maturato età e anzianità per sfruttare l’opportunità che le è stata offerta. Giusto in tempo per sottrarsi alla difficile prova della nuova ricostruzione, quella che si sta organizzando oggi dopo la pandemia e con le risorse del Pnrr.
Negli stessi anni molti giovani lasciarono il Sud e immigrarono in cerca di lavoro. Ma non nella misura che si può immaginare. I dati sui flussi migratori indicano infatti una tendenza abbastanza sorprendente. Come rilevano Enrico Pugliese e Mattia Vitiello in un saggio sull’emigrazione dalla Campania al Centro-Nord apparso recentemente nel volume Campania in movimento. Rapporto 2020 sulle migrazioni interne in Italia (il Mulino 2020), gli anni del post-terremoto furono anni dove il fenomeno immigratorio ebbe una considerevole flessione, e che solo dopo il 1995 esso riprese in maniera crescente, fino ad arrivare al dato macroscopico dei 900mila giovani che hanno lasciato il Sud negli ultimi 20 anni.
Non voglio apparire come chi scarica su quella generazione, che poi è la mia, le responsabilità del fallimento della ricostruzione e della cattiva politica che ha condannato il Mezzogiorno all’arretratezza. Ma alcune domande me le pongo: quanto hanno inciso – ad esempio – in negativo tutte quelle politiche di “vantaggio” per chi si considerava “svantaggiato”? Che peso può avere avuto sulle nuove generazioni quelle politiche di protezione prive di ogni riferimento al merito, alla capacità di adattamento, allo stimolo all’impresa? Quanto ha giocare la sospensione di ogni sana competizione? Quanto è stato diseducativo rinunciare a misurasi sul merito, ad essere premiato sulle performance e per le capacità dimostrate sul campo?
Le domande ovviamente non hanno solo un valore storico, come si può immaginare, ma hanno una concreta e, per certi aspetti, drammatica attualità. Stiamo commettendo per caso gli stessi errori? Stiamo riempendo nuovamente in modo scriteriato la nostra amministrazione pubblica di giovani mediocri a cui interessa soltanto il posto fisso? Stiamo gettando in questo momento le basi di una nuova sconfitta storica?
(7 – fine)
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