Anche in politica ci si imbatte spesso nei cosiddetti cold case, casi non risolti. Ad esempio, ancora non si è capito come sia stato possibile – in seguito al terremoto dell’80 – assistere al trionfo di quella stessa classe politica locale, principale responsabile del disastro. Dopo settimane segnate dall’indignazione generale e dalla condanna pressoché unanime del malgoverno perpetrato per decenni, gli stessi amministratori riconquistarono il ruolo di comando e riuscirono a scalare posizioni, fino a diventare la classe dirigente del Paese per oltre un decennio.



Nel nostro racconto sul terremoto dell’80 avevamo lasciato le migliaia di ragazzi volontari giunti in Irpinia e in Basilicata da tutta Italia a scavare per recuperare i morti e ad aiutare i sopravvissuti in un lungo e freddo inverno. In quelle settimane la critica al comportamento del governo per i ritardi nell’organizzare i soccorsi e nel mobilitare le forze dello Stato divenne ben presto un moto di protesta dell’opinione pubblica nazionale. Le zone del terremoto erano tra le più povere del Mezzogiorno e la catastrofe naturale aveva svelato tra le macerie, o proprio grazie ad esse, l’arretratezza cronica delle abitazioni, delle infrastrutture elementari, dei servizi di base. Ogni crollo aveva aggiunto al danno del dolore la beffa di scoprire ruberie sul cemento utilizzato in ogni opera pubblica e privata, palesato l’incapacità di gestire ogni risorsa pubblica spesa per anni.



L’opposizione ebbe un certo timore a cavalcare la rivolta. Furono i ragazzi che si erano mobilitati spontaneamente, i giornalisti giunti come inviati di guerra, le parole durissime del presidente Pertini, a cambiare le cose. La prima reazione politica arrivò il 27 novembre, a conclusione della riunione della direzione del Pci convocata d’urgenza a Salerno. Berlinguer colse l’occasione del terremoto per porre fine alla politica del “compromesso storico”. Usò parole durissime verso la Dc, le assegnò la responsabilità di quanto accaduto e sollevò – per la prima volta nella storia repubblicana italiana – la “questione morale” come impedimento per ogni futura collaborazione.



Nel settembre del 1973 era stato proprio lui, con tre lunghi articoli su Rinascita, scritti in seguito al golpe militare in Cile, a sostenere esattamente il contrario. Aveva spinto il movimento comunista italiano su una frontiera solo qualche anno prima inimmaginabile, quella della collaborazione con la Democrazia Cristiana in quanto partito di massa ed espressione della fondamentale componente cattolica. La linea del “compromesso storico” appena enunciata aveva avuto proprio a Napoli un primo concreto caso di applicazione dopo le elezioni amministrative del 1975. Il Pci aveva raccolto il 41% dei voti ma non aveva la maggioranza sufficiente in consiglio per governare il comune. Fu proprio un voto tecnico della Dc a consentire alle giunte di Maurizio Valenzi di superare ogni anno lo scoglio del bilancio. L’esperimento fu possibile proprio in virtù della politica di unità nazionale che di lì a poco, dopo il voto del 20 giugno del 1976, aveva spinto a una qualche forma di collaborazione i due principali partiti nazionali. In quegli anni molti dirigenti del Pci conobbero da vicino la responsabilità del governo. È vero, nessuno di essi divenne ministro. Ma durante l’esperienza dell’unità nazionale, pur non entrando mai formalmente nell’esecutivo, gli esponenti comunisti occuparono molti ruoli di potere e soprattutto in parlamento si sviluppò tra i due partiti una collaborazione completa.

I durissimi mesi seguiti al rapimento e poi all’uccisione di Aldo Moro si conclusero con la fine di quell’esperimento e con una sconfitta politica del Pci, che alle elezioni del 1979 ritornò sotto il 30% dei voti. Risultato considerevole nella storia elettorale dei piccoli partiti comunisti dell’Europa occidentale, ma che fu vissuto come una sconfitta durissima. Quello che però pesò di più in quegli anni fu l’incapacità del gruppo dirigente guidato da Berlinguer nel trovare una nuova strategia. Nel comitato centrale successivo al voto l’ala più moderna del partito propose di scegliere la linea di un’alternativa democratica e di sinistra alla Dc. Ma Berlinguer rifiutò finanche di discuterne, visto che la principale condizione era quella di ricostruire un rapporto privilegiato con il Psi di Craxi. Quell’estate del 1980 era iniziata una lotta durissima alla Fiat e Berlinguer vide in quella battaglia l’occasione per una riscossa del partito. Il 26 settembre si recò davanti ai cancelli della fabbrica e tenne un discorso improvvisato, afferrando un megafono e parlando dal tetto di un’auto. La cosa fece inorridire chi nel Pci contrastava la deriva del partito verso il ritorno al vecchio ruolo di opposizione. Dunque il terremoto rappresentò per Berlinguer l’occasione per superare ogni ulteriore resistenza interna.

La svolta fu così repentina che colse di sorpresa gli stessi dirigenti più autorevoli, che avevano disertato la riunione di Salerno considerandola una iniziativa di propaganda. Salvo pentirsene quando incominciarono ad arrivare i primi lanci delle agenzie. Colpì molto Piero Di Siena, un giovane dirigente comunista lucano che gli era accanto, “l’imbarazzo di Gerardo Chiaromonte quando gli lessero per telefono la dichiarazione di Berlinguer” a cui dovette dare comunque il proprio assenso. Non erano anni in cui un dissenso così profondo poteva essere reso pubblico. Ma si capì presto che la sortita di Salerno aveva determinato un isolamento di Berlinguer rispetto alla maggioranza del gruppo dirigente. Isolamento che durò fino alla sua drammatica morte nel 1984.

I luoghi di maggiore resistenza alla linea berlingueriana erano i gruppi parlamentari, diretti in quei mesi da Di Giulio e Perna. Entrambi avevano avuto negli anni dell’unità nazionale ruoli centrali. Ma anche in direzione pesavano i pareri di autorevoli rappresentanti come lo stesso Chiaromonte e di Giorgio Napolitano, all’epoca responsabile dell’organizzazione e in quegli anni impegnato a costruire le relazioni con i partiti socialisti europei. Ma il dissenso non ebbe mai una chiara manifestazione pubblica, per motivazioni e scelte personali le cui ragioni sono oggetto di dibattito e che ritroveremo nell’ampio confronto che si è aperto da qualche mese per i 100 anni dalla costituzione del Pci.

Questo era il clima quando arrivò alle Camere il decreto del governo per gli aiuti alle zone terremotate. La legge 219 del 14 maggio 1981 non si limitò a convertire il decreto-legge del 19 marzo. Infatti, accanto ai già cospicui interventi previsti dal decreto fu inserito l’intero Titolo VIII. Fu in quell’occasione che apparve negli ultimi articoli della legge un massiccio intervento edilizio per oltre 20mila alloggi a favore della città di Napoli. La commissione d’inchiesta del ’91 commenterà questa scelta così: “l’inserimento (..) è motivato dal fatto che Napoli, già in condizioni di grave degrado, aveva subito dal sisma ulteriori danni più indiretti che diretti”. In altre parole, la legge venne approvata anche dall’opposizione in cambio di un intervento edilizio che favoriva Napoli, città amministrata da una giunta di sinistra, che danni diretti ne aveva avuti davvero pochi. Ma la novità ancora più rilevante non riguardava solo gli aspetti economici dell’intervento. Con il Titolo VIII si istituiva una nuova figura commissariale per il programma, individuata nel sindaco pro-tempore di Napoli.

Questa scelta era qualcosa di assai diverso da quanto accaduto nei mesi di dicembre e gennaio e da quello che Berlinguer aveva annunciato senza mezzi termini nella sua dichiarazione di Salerno. Ma evidentemente il segretario non controllava più i propri gruppi parlamentari. L’intero movimento dei volontari che aveva retto la situazione durante le settimane della fuga dalle responsabilità aveva chiesto che non si umiliasse la rete di associazioni e del volontariato che si era stretta intorno agli enti locali. Al contrario tutto passò ai commissari con poteri assoluti e tutto ciò apparve al movimento come un tradimento, la fine di un’illusione, di un sogno.

Da quel momento entrò nel vocabolario della politica italiana il termine “consociativismo”. Ci si riferiva ad una politica che vedeva nei fatti un’ampia condivisione delle scelte e della gestione del dopo-terremoto tra le forze che governavano il paese e quelle di opposizione. Fu in fin dei conti una politica sbagliata e si rivelò assai punitiva per la sinistra napoletana e meridionale: pur godendo di un maggior potere, in un lasso di tempo relativamente breve, la sinistra precipitò in una crisi profonda di identità e subì soprattutto un tracollo elettorale. Nella sola città di Napoli, il Pci passò dal 41% del 1975 e dal 34% del 1980 al 12% raccolto nel 1992. Sorte analoga a tutto il partito nel Mezzogiorno. Al contrario le forze che costituivano il cosiddetto pentapartito crebbero in maniera sempre più consistente, fino a prendere il sopravvento a livello nazionale.

Quel decennio – dal 1981 al 1992 – sarà molto importante per la storia del nostro Paese ed è necessario continuare a parlarne. Serve tenere viva una riflessione storica e culturale sui passaggi che presentano ancora troppi lati oscuri. Come dice Mario Calabresi in Quello che non ti dicono, “nessuno parla, se non quelli che lo fanno per professione, che hanno una loro tesi e una loro agenda da mezzo secolo e appena possono si affacciano sulla scena per gridare la loro verità, che troppo spesso è inquinata e serve a sentirsi ancora vivi e ancora nel giusto”.

Come furono scelte le aree degli investimenti, i progetti, i consorzi di impresa? Come avvenne che da questo enorme flusso di danaro nascessero altri problemi e contraddizioni, e soprattutto non conoscessimo lo sviluppo desiderato? E ancora, il ruolo centrale del movimento dei disoccupati organizzati. Quello delle partecipazioni statali. La cooperazione che si trasferì in massa dal Centro–Nord. La nuova criminalità organizzata.

Sono anni che segnarono profondamente la storia della città di Napoli e del Mezzogiorno, e gran parte di quelle vicende pesano ancora sulla realtà attuale fino a spiegare gran parte del mancato sviluppo. Proprio ora che una nuova ondata di risorse pubbliche sta per essere destinata alle regioni meridionali, è importante sottolineare che il tema non è solo quello di capire come fare per spenderle in fretta, ma soprattutto che è necessario usarle bene, facendo tesoro dei tanti errori del passato.

(3 – continua)