Caro direttore,
nemmeno Lucio Caracciolo, il commentatore italiano più autorevole sulla crisi geopolitica, ha resistito nel mainstream – fra il critico e il compiaciuto – sull’incidente politico-diplomatico in cui è incorsa Giorgia Meloni. Vi sono pochi dubbi che il “lamento” della premier per l’esclusione dal summit fra il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky abbia costituito un affaire politico-diplomatico. Ed è valutazione elementare che il rammarico pubblico della premier italiana sia apparso in sé una manifestazione di debolezza, tanto improduttiva quanto evitabile. Sembra tuttavia scorretto isolare l’episodio fra tutti quelli di questi giorni di vera e propria “bonanza” internazionale: in cui molti palcoscenici – da Bruxelles a Sanremo, da Londra a Parigi, hanno visto altri leader europei recitare parti assai discutibili, anche più di Meloni.
Debolissima, anzitutto, è sembrata a inizio settimana la trasferta congiunta a Washington del ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire e del vicecancelliere tedesco, il verde Robert Habeck. Negli intenti avrebbero dovuto portare fisicamente negli Usa la protesta della Ue contro la politica dei sussidi pubblici alla transizione energetica decisa dall’amministrazione Biden. Nei fatti i due si sono ritrovati nei panni imbarazzanti dei classici attivisti in stile Greta davanti ai Palazzi del Potere Globale: salvo non ottenere neppure quel risalto mediatico, mentre i risultati – anche solo d’immagine istituzionale francese, tedesca, europea – sono stati pari a zero. Anzi: a saldo negativo, un’occasione persa, una grave falsa partenza in una dei grandi negoziati che decideranno il nuovo dopoguerra.
L’obiettivo vero della missione era tentare di rappezzare pubblicamente l’asse franco-tedesco nella Ue: in partenza, quindi, un’ammissione implicita di debolezza dei due Stati membri nelle loro relazioni bilaterali; e – quel che è stato peggio – la conferma che Parigi e Berlino intendono riproporre una loro leadership a Due sui Ventisette della Ue. Quindi ancora: un’esibizione drammatica di quanto la Ue sia oggi lacerata e di come i due pretesi Paesi-guida abbiano perso ruolo e rotta sotto le onde d’urto della crisi geopolitica. Molto peggio del “lamento” dell’Italia di fronte – comunque – a uno sgarbo palesemente intenzionale, a un “fallo di frustrazione” di Parigi entro i confini Ue.
Lo sgarbo – inferto al summit di Parigi sullo stesso schema bilaterale della missione Le Maire-Habeck di due giorni prima – può essere quindi osservato sotto quest’altra prospettiva di strumentalità: l’ansia franco-tedesca – molto discutibilmente “europeista” – di “rimettere in riga” gli Stati membri della Ue, anche in vista della riscrittura dei Trattati di Maastricht. E nel mirino (tutto politico e nazionalista) vi sono i Paesi politicamente “non allineati” con il centrismo tecnocratico di Macron o con la sinistra rosso-verde di Scholz. Atteggiamento comprensibile e allarmato: fra un anno si rivoterà per l’Europarlamento e si rinnoverà la Commissione Ue. L’Ecr di Giorgia Meloni è dato in ascesa ed è in colloqui strategici con il Ppe (primo aderente: la Cdu-Csu tedesca); mentre il Pse e i liberaldemocratici di Alde (di cui fa parte la macroniana En Marche!) sono in forte difficoltà ovunque nella Ue. Già domani, comunque, si vota in Italia: nel Lazio o in Lombardia, le regioni che hanno come capoluogo Roma e Milano. Sarà interessante osservare se e quali effetti avrà lo “schiaffo di Parigi” (affrontato personalmente dalla premier, solo affannosamente rincorsa da Antonio Tajani: vicepremier per FI, ministro degli Esteri ed ex presidente del Parlamento europeo).
Ma – tra realpolitik, surrealtà e ipocrisie – l’affaire Meloni-Macron sembra meritare una riflessione meno superficiale degli slogan sull’“Italia isolata in Europa”. Ed è forse sufficiente il classico esercizio di provare a unire i puntini: salvo verificare che non ne risulta alcuna immagine coerente.
Primo. Zelensky, al giro di boa dell’anno di guerra, ha compiuto un grand tour in Europa in classica tenuta da combattimento. Si è sgolato con il suo slogan unico: “La guerra dell’Ucraina contro la Russia continuerà fino alla liberazione definitiva di Crimea e Donbass”. “L’Europa non può non sostenere l’Ucraina ora e sempre: fornendo armi di pieno potenziale bellico, pagando la vita quotidiana degli ucraini che sono rimasti in patria, accogliendo i milioni di profughi ucraini; dando il via libera all’ingresso di Kiev nella Ue e nella Nato entro due anni”. Eccetera.
Secondo. A Parigi Zelensky ha cercato e ricevuto l’abbraccio plateale dei due leader euro-occidentali che, più di tutti gli altri, hanno sempre sostenuto (senza successo) la linea della trattativa fra Kiev e Mosca: anche in attuazione (rivendicata dal Cremlino) dagli accordi di Minsk, firmati anche dall’Osce con l’appoggio Ue, a conclusione della Prima Guerra Ucraina, con la previsione di uno statuto speciale per il Donbass. Macron – a più riprese prima e dopo la sua faticosa riconferma all’Eliseo – ha speso giornate in teleconferenza con Vladimir Putin e ha apertamente criticato il presidente Usa Joe Biden quando ha bollato il leader russo come “macellaio”. Quanto a Berlino, ancora due settimane fa ha respinto l’appello della Nato (il cui consiglio si era riunito appositamente in Germania) a fornire carri Leopard all’Ucraina. Ne concederà solo sulla base di una successiva intesa breve fra Scholz e Biden, fuori dai perimetri Ue e Nato. Non saranno prevedibilmente tank di ultima generazione e non giungeranno in Ucraina prima di primavera inoltrata (quando un cessate il fuoco potrebbe essere stato nel frattempo dichiarato). E un capitolo a sé meriterebbero certamente tutti i tentennamenti (i “doppi giochi”) della Germania sul fronte russo-ucraino legati alla partnership russo-tedesca sul gas, culminata nell’ultimazione di Nord Stream 2, sotto la garanzia diretta di Gehrard Schröder, predecessore socialdemocratico di Scholz a Berlino, poi arruolato da Mosca ai vertici Gazprom. Se c’è stato un Paese “isolato” in Occidente sul crinale delle sanzioni a Mosca è stato ed è in parte tuttora la Germania.
Terzo. Giorgia Meloni è diventata premier in Italia dopo essersi imposta nettamente nelle elezioni politiche dello scorso settembre. Al suo successo ha contribuito una posizione ferma a totale supporto dell’Ucraina contro la Russia: l’unica nel ventaglio delle forze politiche al vaglio delle urne (ed era comunque la stessa del precedente governo istituzionale guidato da Mario Draghi). In particolare, una posizione sostanzialmente riflessiva e problematica sul conflitto ucraino è stata invece espressa – con accenti progressivamente più marcati – dal Pd (per il quale ha parlato spesso il padre nobile Romano Prodi). Se c’è stata comunque una “zelenskiana di ferro” fin dalla prima ora in Europa è stata Meloni: leader di Ecr, di cui è aderente forte “Legge e Giustizia”, il partito di governo in Polonia, ultra-Nato e pro-Ucraina. Non è ancora chiaro di chi sia stata la responsabilità del doppio sgarbo a Meloni (a Parigi e a Bruxelles). Di certo quello di Macron-Scholz ha presentato profili di ipocrisia, dunque di debolezza; mentre quello di Zelensky ha sfiorato il falso ideologico. Il passaggio, per certi versi, ha invece testimoniato la forza tendenziale (non la debolezza) di forze e leader politici europei dotati di un legame trasparente con la Casa Bianca. Dove siede – con prospettive di ricandidatura vincente – il “dem” Joe Biden (erede di Barack Obama), non sovranisti anti-Ue come Donald Trump. I leader europei “isolati” nella stessa Ue – o perfino “avventuristi”, sul versante cinese – sembrano nei fatti Macron e Scholz.
Quarto. L’affaire Sanremo è il meno facile da leggere. E un osservatore esterno è obbligato a congetture e interrogativi. Vi sono pochi dubbi che l’ipotesi di un intervento di Zelensky durante il Festival (sulla tv di Stato italiana) fosse in sé coerente con la posizione “pro Nato-Ucraina” del premier in carica. L’intervento è però saltato all’ultimo: contribuendo probabilmente al (paradossale) riflesso tattico-diplomatico di Zelensky contro l’“alleata” Meloni. Ma chi ha deciso l’oscuramento del “comandante Zelensky” dalla Rai?
Il taccuino (interno e geopolitico) del cronista ha annotato due fatti, avendo sempre cura di non andare al di là della loro registrazione. Il primo è stato l’arrivo a Sanremo – a sorpresa e senza precedenti – del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. È stato detto e scritto che la decisione sarebbe stata presa all’ultimo istante proprio al fine di “mettere una pezza” sull’“incidente Zelensky”. Ma – ancora una volta – chi aveva provocato quell’incidente su cui Mattarella si è premurato di esporsi in via personale/istituzionale? E il presidente italiano ha davvero voluto ribadire la “fedeltà atlantica” di Roma? Che sarebbe stata tradita da chi? Difficile pensare che la colpevole sia stata la premier “iper-atlantica”.
Una seconda registrazione di “fonti aperte” parte dalle parole di Papa Francesco durante il viaggio in Africa (“Il mondo è in autodistruzione”, sul volo di ritorno a Roma, quarantott’ore prima che l’Ariston aprisse i battenti). E continua con altre parole di un presule cattolico, risuonate l’altra sera durante lo stesso Tg1 che dava conto degli “schiaffi” a Meloni. A parlare era stato il presidente della Cei, cardinale Angelo Zuppi, in occasione dei 55 anni della Comunità di Sant’Egidio, “la piccola Onu sul Tevere”. “Cessate il fuoco”: era anche il titolo d’apertura del quotidiano della Cei, giovedì mattina, mentre si consumava l’affaire Macron-Meloni. A proposito: Macron e Meloni si sono incontrati per la prima volta a Roma a fine ottobre, poche ore dopo il giuramento del nuovo governo. Il presidente francese era ospite (privato) di una “conferenza per la pace” (cioè contro “la guerra di Putin e Zelensky”) organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio: anche sulla scia del “Trattato del Quirinale”, bilaterale Italia-Francia siglato a fine 2021 da Draghi premier con Macron sotto gli auspici diretti di Mattarella.
Quel che è certo è che – sulla mappa geopolitica dai mille puntini impazziti – Roberto Benigni o Amadeus si sono mossi da figuranti lillipuziani.
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