Gli esami non finiscono mai, aveva ragione Eduardo De Filippo. Prendete il Governo Meloni e la manovra economica: ha appena superato gli esami tecnici e subito arrivano quelli politici. Martedì, infatti, sarà la Commissione europea a emettere la sua sentenza, mentre è in corso il braccio di ferro sul Mes e sul Patto di stabilità. Le pagelle delle agenzie di rating hanno dato tutte la sufficienza sia pur stiracchiata e questo peserà anche a Bruxelles. A sorpresa Moody’s, che a primavera aveva minacciato fulmini e saette, non solo ha confermato il rating Baa3, ma ha rivisto al rialzo le prospettive da negative a stabili.
Sia chiaro, il punteggio resta molto basso, appena un gradino sopra il declassamento del debito a “junk”, tuttavia l’agenzia sottolinea che le banche sono più solide, i costi dell’energia stanno scendendo “anche grazie alle azioni politiche del Governo che hanno diversificato le forniture e potenziato ulteriormente le infrastrutture energetiche”. E poi c’è il Pnrr che, forse, comincia a vedere la luce. “Le prospettive di crescita ciclica continueranno a essere sostenute dalla realizzazione di investimenti nell’ambito del Pnrr fino al 2026, anche se permangono rischi sostanziali nel caso in cui l’Italia non sia in grado di sfruttare al meglio le risorse del piano”, scrive la nota di Moody’s.
C’è un po’ di ottimismo della volontà; in ogni caso, secondo l’agenzia, nonostante la persistenza di disavanzi relativamente ampi, le prospettive di crescita ciclica nei prossimi anni riducono il rischio di un rapido e significativo deterioramento della solidità fiscale dell’Italia.
Prendendo lo scenario di base, il debito diminuirà nel 2023 grazie a una crescita nominale ancora forte e a una riduzione del deficit. L’agenzia di rating prevede che il rapporto debito/Pil sarà pari al 140,3% nel 2023, in calo rispetto al 141,7% del 2022, ma circa 6 punti percentuali in più rispetto a prima della pandemia. Il debito costerà di più, fino ad avvicinarsi a 10 punti di Pil, ma rimarrà sostanzialmente stabile intorno a questo livello fino alla fine del decennio.
Particolare importanza viene data al consolidamento del sistema bancario. È migliorata la qualità dei prestiti (quelli a rischio sono ormai appena il 2,4% del totale) e anche se l’inflazione e la frenata del Pil provocheranno un peggioramento, le banche italiane nel loro insieme non sono più a rischio.
Anche Moody’s sottolinea la sostanziale tenuta dell’economia italiana che ha saputo superare una sequenza di crisi micidiali. Secondo la prospettiva del meno peggio, se come sembra l’Italia riuscirà a evitare una recessione durante l’inverno, potrà tirare una sospiro di sollievo. Sulla promozione, sia pur con un modesto sei meno in pagella, ha influito in modo importante la manovra economica prudente che non ha messo in pericolo il bilancio dello Stato. La soddisfazione di Giancarlo Giorgetti, dunque, è fondata.
La sfida adesso si gioca sulle riforme per aumentare il potenziale di crescita dell’economia. E a queste guarda in particolare la Commissione europea. Parte del negoziato in corso verte proprio su contenuti, tempi e modi delle riforme collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza. La Commissione ha bacchettato il Governo sui balneari, l’escamotage di mettere all’asta solo le spiagge libere non regge. Poi l’Italia è stata deferita alla Corte di giustizia per il ritardo dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione. Inoltre, c’è la riduzione sotto i 100 giorni del calendario per gli appalti. Roma chiede tempo, ma il tempo stringe perché è in gioco la quinta rata del Pnrr, importante anche per il Tesoro che ha bisogno di far cassa.
Su Mes e Patto di stabilità la posizione di Giorgia Meloni resta la stessa: i due dossier sono collegati l’uno all’altro e non si esclude un veto. “Sarebbe folle dire sì a un Patto non sostenibile“, ha dichiarato la presidente del Consiglio. Siamo in piena contrattazione, quindi occorre fare la tara a quel che si dice e vedere quel che si fa. A che punto siamo arrivati?
Francia e Germania hanno preso in mano la trattativa, ma non c’è ancora accordo. Il ministro delle Finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, insiste nel riproporre un vincolo numerico, una percentuale fissa annua per la riduzione del debito. Non è sufficiente “il sentiero” che la Commissione dovrebbe proporre ai Paesi più indebitati anche se fosse stringente al punto che, una volta approvato, non potrà più essere abbandonato salvo gravi emergenze o la caduta del Governo. Un arretramento rispetto alla maggiore flessibilità prevista nella prima proposta presentata dal commissario Gentiloni.
Nei giorni scorsi era emersa la disponibilità a non calcolare gli investimenti per la difesa (su questo insiste anche la Francia) e quelli del Pnrr. Un passo avanti rispetto alle richieste presentate da Giorgetti. Ma il vero problema resta il disavanzo pubblico italiano, troppo elevato per consentire una riduzione del debito sul Pil, mentre di qui al prossimo anno la crescita non sarà sufficiente a portare il rapporto sotto il 140%.
Insomma, i conti del Governo vengono passati al setaccio. È vero che nemmeno la Germania può tirare la prima pietra visto che la Corte costituzionale ha messo nel mirino i fondi fuori bilancio, ma anche rifacendo i conti il deficit sarebbe del 2,4% e il debito sul Pil ben al di sotto del 70%. Un danno d’immagine che non cambia la sostanza: per deficit e Pil la Germania sta meglio della Francia e ha più margini di manovra rispetto ai maggiori Paesi dell’Unione.
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