È morto Aleksej Navalny, in una colonia penale dell’Artico. In questo momento giornalisti, opinionisti e complottisti hanno già incominciato a domandarsi a chi potrebbe giovare la sua morte. Personalmente lascio la questione a tutti quelli che lo desiderano. Mi interessa piuttosto cercare di capire e di spiegare, innanzitutto a me stesso, come la Russia potrebbe uscire dalla situazione in cui si trova.
Sono stato testimone oculare, involontario, di quando Putin nel 2002 venne ad Astana per firmare con alcuni presidenti di repubbliche dell’ex Unione Sovietica il trattato CSTO. Mi colpì soprattutto che nel cosiddetto “fuori onda” trattò gli altri presidenti con un’arroganza che certo non mi sembrava si addicesse alla circostanza. In questi anni Putin ha sicuramente saputo interpretare il malcontento della società russa, in particolare di quella tradizionalmente nazionalista, che si sentiva tradita dalla perestrojka di Gorbaciov e ingannata dalla successiva gestione del potere da parte di Elstin. Oggi si è buttato in una guerra di cui forse non riesce a valutare le conseguenze. Anche se riuscisse a ottenere una specie di vittoria, risulta evidente a chi conosce bene la Russia che una parte consistente del Paese, a cominciare da quei milioni di russi, soprattutto giovani, che sono fuggi dalla Federazione, non vede l’ora che perda il potere.
Il fatto è che in Russia per ora se c’è un’opposizione è quella che si basa sul dissenso di movimenti di opinione. Navalny ha avuto il coraggio di tornare in Russia a combattere, e morire per le sue idee, ma molti di noi lo ricordano ancora quando fu espulso dal partito liberale Yabloko per i suoi eccessi di razzismo. Così non solo non ci sono più significative forze politiche organizzate alternative, ma mancano esperienze vive di cultura popolare che possano dare consistenza al malumore della gente.
La Chiesa russa ortodossa per la maggior parte, e nella sua guida, ha dimostrato di immedesimarsi con il potere di turno. Una Chiesa nazionale che diventa facilmente nazionalista. I vecchi dissidenti, quelli del Samizdat, per intenderci, sono scomparsi uno ad uno, travolti da miti di origine occidentale che poi paradossalmente hanno avuto l’effetto di suscitare la reazione del nuovo nazionalismo russo. Questo trova sempre più le sue basi teoriche in quel neopaganesimo slavo alla Dugin e in quelle organizzazioni paramilitari di cui la Wagner è l’esempio più noto. Significativo è il modo in cui il canale della Wagner ha comunicato la notizia della morte di Prigozhin: “Anche all’inferno sarai sempre il migliore!”.
Intanto la Cina sta a guardare. Aspetta sulle rive del fiume della storia che il cadavere della Russia, e forse anche dell’Europa, scorra sotto i suoi occhi.
Così bisogna avere pazienza. Sperare, magari anche pregare, che a poco a poco tra i giovani, soprattutto tra quelli che non sono fuggiti e tra quelli che sono tornati dal fronte con le loro terribili testimonianze, possa nascere un movimento non solo di malcontento, ma propositivo. Anche alternativo a quei modelli che spesso ci ostiniamo a proporre dall’Occidente.
Alla dittatura di un solo uomo al comando non possiamo più contrapporre quella del 51% al potere, di qualunque colore sia. Cercando il bene comune forse capiremo che innanzitutto abbiamo bisogno di verità. Compresa quella, che, come ho già detto, si scrive con la “V” maiuscola.
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