Con apprezzabile acume, dalle pagine di questo giornale, si evidenziava ieri come, al netto della ancora dilagante pandemia, gli italiani siano spettatori di un doppio reality che coinvolge la crisi di governo e l’ondata di fango che sta generando il libro intervista dell’ex pm Luca Palamara. D’altronde, sempre da queste pagine, agli albori dell’inchiesta di Perugia, si appellò quella in corso come una vera e propria guerra fra bande, che come nelle migliori saghe cinematografiche ispirate dalla realtà, conosce ora il suo primo “pentito”. Di converso, in seno all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione ha lanciato un chiaro appello politico al ministro uscente della Giustizia, invocando la necessità di “riformare urgentemente la giustizia”. Della necessità di “rifondazione morale” ha invece parlato il vicepresidente laico del Csm. I nodi, evidentemente, stanno pian piano venendo al pettine.



Come andiamo ripetendo da tempo, il malato è grave e la cura è ben lontana dall’essere individuata. In questo scenario ben si staglia il best seller del momento, ovvero il libro intervista che Alessandro Sallusti ha fatto a Luca Palamara; libro che sembra mirabilmente inserirsi nella tempesta perfetta che stiamo vivendo fra crisi sanitaria, politica e istituzionale.



Con tutti i problemi che il paese sta affrontando, occuparsi di questo libro non è espressione di mero voyerismo. Chi scrive è ben conscio che le dichiarazioni di Palamara vanno prese per quelle che sono, ovvero dichiarazioni provenienti da uomo sconfitto e giustamente avvelenato contro quei colleghi che in qualche modo lo hanno tradito e abbandonato, tuttavia il libro offre all’intero “sistema” la possibilità di procedere ad approfondito esame di coscienza, senza il quale risulterebbe davvero difficile immaginare il varo delle sperate riforme.

Il compito di accertare i singoli fatti ovvero i singoli racconti potrà al più spettare alla magistratura che su quei fatti sta indagando. A noi deve interessare lo scenario d’insieme e il senso del degrado delle istituzioni che ne vien fuori, allo scopo, evidentemente, di provare a capire da dove ripartire per rifondare. Ha quindi ragione Palamara quando parla, come fatto domenica sera da Giletti, della necessità di operare una forte autocritica della categoria, divenuta a tutti gli effetti una casta, così come è opportuno il richiamo a quel referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati, a cui di fatto non si è voluto dare reale seguito.



Palamara parla da uomo sconfitto che non ha più molto da perdere e ciò che dice va in qualche modo tarato, ma che egli, insieme a Ferri, sia stato l’artefice della stipula di un accordo storico fra la corrente di centro e quella di destra della magistratura a discapito delle correnti di sinistra con ciò scatenando una certa reazione di chi, dopo decenni, si era visto messo ai margini dalle scelte e dalle nomine più ambite, perdendo per la prima volta sia la carica di procuratore generale della Cassazione che quella di primo presidente, è un dato di fatto difficilmente smentibile. Così come non è smentibile che lo scontro sia detonato alla vigilia della nomina del procuratore di Roma, carica che anch’essa stava per essere assegnata a un magistrato della nuova maggioranza dell’ultimo Csm, la cui composizione è stata poi stravolta proprio a seguito dello scandalo che ne è derivato, riportando il sistema, attraverso elezioni suppletive, ad antichi equilibri.

Queste realtà non devono essere oscurate dalla scelta dell’intervistatore Sallusti di dedicare una discreta fetta del libro ai processi celebrati a carico di Berlusconi. Allo stesso modo sono evidenti dei buchi nell’affresco del malaffare fra i quali spicca quanto succedeva nella procura romana prima dell’avvento di Pignatone, ovvero quando Palamara era già presidente dell’Anm.

Resta lo scenario di mediocrità che ne vien fuori, ben simboleggiato, come pure è stato scritto, da un albergone dal nome provincialmente pretenzioso, l’Hotel Champagne. Dal libro emerge incontrastato il vuoto d’ideale in cui è precipitata la dialettica politica dentro l’associazione dei magistrati. Da molti amici magistrati registro da anni voci di sconforto per l’apatia etica diffusa, per una sorta di indifferenza sentimentale verso il proprio lavoro e i suoi valori assoluti, per il ripiegamento verso ossessioni di carriera e mera apparenza, per la partecipazione alla politica associativa nella esclusiva previsione di futuri vantaggi.

È quindi inevitabile che in questo contesto di mediocrità si sia incrostato quel corporativismo che spinge a quella reciproca indulgenza che anima l’istinto di auto-protezione verso gli errori del collega, non fosse altro perché domani potrebbero essere i tuoi. Come lucidamente è stato osservato, le chat di Palamara riflettono gli stessi meccanismi claustrofobici e ossessivi dei gruppi “social”, all’interno dei quali si crea l’effetto “bolla” per cui ciò che è dentro quegli scambi sempre più nevrotici diventa l’unico vero mondo. Quel mondo in qualche modo è andato in pezzi, finalmente.

È allora arrivato il momento di mettersi all’opera. È arrivato il momento in cui la magistratura migliore spinga affinché si smantellino i riti più oscuri che governano le valutazioni per le nomine, favorendo valutazioni di merito ispirate a verifiche di reale efficienza. La magistratura, della quale un paese civile evidentemente non può fare a meno, non deve più avere paura di misurarsi con la crisi in cui versa. La delega in bianco che il paese le aveva offerto agli inizi degli anni 90 per la moralizzazione della politica ha prodotto alla fine il fallimento dello stesso ordine giudiziario. Stessi vizi, stesse cattive abitudini, solo con qualche ladrocinio in meno, che tuttavia non è bastato a evitare il crollo del sistema. Il pericolo, sì badi, è che alla rassegnazione e all’indifferenza di tanti che da anni queste cose le vivevano e talvolta subivano, si possa reagire con confuse iniziative di stampo populista in grado di alimentare un pericolosissimo e disordinato qualunquismo. Qualcosa che in fondo la politica ha già vissuto in questi anni con l’esperienza pentastellata che poi fatalmente ha dovuto, una volta conquistato il palazzo, fare i conti con la difficoltà della gestione del potere.

Che il vaccino giusto possa essere individuato nel sorteggio è evenienza che sa troppo di scontato per essere davvero adottata come la cura di tutti i mali. Occorre piuttosto mettersi attorno a un tavolo per ragionare e studiare, come pare con successo abbiano fatti gli scienziati per sconfiggere il virus che attanaglia da un anno le nostre vite. Utile potrebbe essere il verificare, per esempio, se davvero non valga la pena favorire la contaminazione con l’avvocatura e con l’accademia. Non che queste siano categorie pure e vergini, tutt’altro, ma dall’interazione dei diversi ambiti può derivare un po’ d’aria nuova, a fronte dell’oramai imminente rischio di morire asfissiati tra i veleni.

Di certo, il Conte ter o il Pinco Palla I non potranno più rimandare un serio tentativo di risistemazione della oramai asfittica macchina giudiziaria a cui nessuna terapia intensiva può più assicurare la sopravvivenza ancora a lungo.