Va detta subito una verità, a proposito della morte del presidente iraniano Sayyid Ebrahim Raisi: dovunque vada nell’aldilà, troverà gente che gli morde i piedi. Mi spiace di mancare di pietà, e me ne vergogno subito. Ma ne ha ammazzati proprio tanti questo giudice islamico, carnefice capo di carnefici, spietato esecutore della volontà in Iran e fuori dall’Iran prima di Khomeini e poi di Khamenei, guide supreme uguali nella capacità d’infliggere orrore, divise solo da due vocali diverse (nessuno può sapere com’è stato l’ultimo istante di Raisi; chissà se ha pensato alle migliaia di madri che ha consegnato all’abisso mentre pregavano di poter sostituire sulla forca le proprie creature torturate e poi impiccate per decisione di quest’uomo. Più in basso di dov’erano sprofondate, esse hanno trovato la Madonna a prendersele in braccio. Ci sarà posto lì, su quel petto, per il torturatore?).
Cerco di tracciare uno schizzo di analisi politica, nella sporcizia che circonda questa fine, compreso il funerale di gloria biasimevole.
1. Nessuno crede all’incidente. Mettono tutti questa parola tra virgolette, e si susseguono le supposizioni, ma poco cambia chiunque sia stato il killer che ha premuto il grilletto del meteo. Non cambia nulla nell’assetto di potere del regime terroristico iraniano. Conta la guida suprema Ali Khamenei, il resto sono fantocci di cartapesta. Non è un tipo di piramide di carta, la Repubblica islamica sciita, cui sottraendo un cubo si possa determinare l’effetto domino di un crollo. Ha una storia solida di concatenamento di interessi clericali. Ha contro il 60 per cento delle giovani generazioni, preparatissime, tenaci, vere eredi di una cultura millenaria che a quella cristiana ha dato i magi e una sapienza che aspira alla bellezza e legge la scrittura celeste delle comete. Non sarà l’esecuzione di una mezza tacca in declino a restituire l’Iran alla propria storia, occorrerà che cresca dall’interno un’ondata che, soffocata uno, due, tre volte, alla fine seppellirà la casta intimamente decrepita per la propria cattiveria e avidità.
2. La tesi più convincente è – a mio sommesso ma logico avviso – che si sia trattato di un’esecuzione che ha avuto per attore principale il Mossad, che ha inteso eliminare il meno protetto e dunque il più sacrificabile del gruppo di uomini che ha deciso l’attacco infame di Hamas del 7 ottobre. Non c’è dubbio alcuno che – a parte l’insipienza assoluta di Bibi Netanyahu, che oggi si manifesta anche nella crudeltà a Gaza – strategia e tattica della strage di ebrei e della presa in ostaggio di gente inerme in Israele, siano figlie di un incrocio tra tecnica e ideologia di fanatici religiosi egemonizzati da Teheran.
3. Gli americani hanno offerto all’Iran, in un incontro nell’Oman, una reazione blanda di Israele in cambio di un’attenuazione degli attacchi esercitati attraverso una guerra per procura affidata dall’ayatollah Khamenei agli Houthi e a Hezbollah. Né Gerusalemme né Teheran hanno accettato alcuna mediazione, ma nessuno darà guerra diretta, entrambi frenati – per ora – dai rispettivi alleati forti (nessuna intenzione da parte dello scrivente di parificare il regime terroristico sciita con la democrazia israeliana, pur essendo capace quest’ultima di generare pessimi governi)
4. Il ruolo di Baku è misterioso. L’Azerbaijan è amico stretto di Israele, che gli fornisce armi a iosa in cambio di gas. Non era un mistero che un’azione per colpire l’Iran supponesse un attacco a partire dallo Stato retto dalla dittatura di Ilham Aliyev. E perché mai Khamenei ha voluto che il suo (nominale) numero 2 (un 2 di picche mentre la briscola è quadri) si esponesse in un viaggio millimetricamente controllato dal Mossad, meteo compreso?
5. All’Italia tocca, secondo tradizione, di porsi come autorevole interlocutore capace di sincerità e amicizia anche con i cattivi. Questo ruolo che fu esercitato nella seconda parte del XX secolo non è stato più coperto da nessuno. Occorrerebbe un supplemento d’anima da parte di una classe politica unita intorno al grido per la pace del Papa. Che sta a Roma, e non è un caso.
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