Nella settimana sanremese le strade, i vicoli, i locali, non solo della città ligure ma di tutta Italia, si sono riempiti di persone che cantavano, che ascoltavano canzoni, che si sentivano rappresentate da un particolare brano proposto al Festival di quest’anno. Nonostante il periodo che stiamo vivendo, le notizie di cronaca che ci giungono e ci rattristano, nessuno perde la voglia di cantare. Nel “bel paese là dove ‘l sì suona” non viene meno il gusto di intonare un motivetto, non si dimenticano le proprie origini e tradizioni millenarie, radicate nel canto, nella poesia, nella pittura, nell’arte. Ci sentiamo uniti, non solo negli stadi quando gioca la nostra Nazionale, ma anche quando siamo investiti dalla bellezza, quando ci sentiamo descritti da una caratteristica melodia.
Anche quest’anno, durante la kermesse di Sanremo, le parole della canzone italiana hanno dato forma, suono ed espressione ai più disparati sentimenti umani, compreso quello della noia cantato da Angelina Mango, che ha vinto l’edizione del Festival di Sanremo 2024. Il testo, scritto dalla cantante, da Madame e Dardust, ribalta l’attuale concezione della noia, stato d’animo che generalmente viene rifiutato e combattuto, ma che l’artista accoglie, invece, come trampolino di lancio verso qualcosa di nuovo, come un’occasione di rinascita. Infatti, in un’intervista afferma:
“Spesso i momenti tristi sono il seme, il preludio a una nuova felicità, il buio prima della luce. Non si deve aver paura della noia: va accolta, è importante, così come tutti i sentimenti che ci portano giù, in fondo. C’è una risalita, sempre. La noia non va combattuta: è tempo prezioso da dedicare a noi stessi. E nei momenti difficili, bisogna ballarci sopra”.
Tutti, ma soprattutto i nostri giovani, hanno paura della noia, sono terrorizzati dalla sensazione di vuoto e di insoddisfazione che spesso domina il loro animo e le loro giornate. Essa caratterizza a tal punto la nostra vita che tanti sono stati i poeti e gli scrittori nel corso della storia che hanno cercato di descrivere tale stato d’animo; ad esempio, Lucrezio con il taedium vitae, Orazio con la straenua inertia, Petrarca con l’accidia.
Le testimonianze di questi poeti mettono in luce che da sempre gli uomini sono stati investiti dalla noia, perché l’uomo continuamente cerca qualcosa che soddisfi la personale sete di felicità, come afferma Orazio, in una lettera a Bullazio: “[…] Ci tormenta un’inerzia inquieta; con navi e quadrighe cerchiamo la felicità […]”. Cerchiamo, ma non sappiamo bene cosa, e questa esperienza provoca il dissidio interiore che dilania anche l’animo di Francesco Petrarca, quando in una lettera afferma: “[…] Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. […]”. Inoltre, Petrarca, immaginando, nel Secretum, di dialogare con sant’Agostino, così definisce la noia che lo attanaglia: “Una peste che talvolta mi afferra con tanto implacabile tenacia da tenermi incatenato interi giorni e intere notti […] e allora per me questo non è più tempo di luce o vita, ma notte d’inferno e morte crudelissima”. “Un vero attualissimo male di vivere […]”.
Il sentimento descritto dal poeta aretino non è altro che il montaliano “male di vivere” ante litteram: esprime il desiderio di afferrare e possedere qualcosa che appaghi la sete di significato, senza conoscere fino in fondo cosa. Questo stato d’animo ci fa “morire senza morire”, ci fa toccare il fondo, che è quello che canta Angelina Mango ne La noia, quando dice: “[…]Muoio senza morire/ in questi giorni usati/ vivo senza soffrire/ non c’è croce più grande […]”. Ma questa volta, le parole del testo della Mango non invitano a fuggire lo stato malinconico in cui il più delle volte ci capita di trovarci; ci propongono, viceversa, di indossare, come dress-code delle nostre serate e delle nostre giornate, una simbolica “corona di spine”: “Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa”.
È davvero interessante poter sentire in un brano del Festival – tra l’altro quello che ha vinto – che non dobbiamo vergognarci delle sofferenze che viviamo, delle delusioni che ci affliggono, dei tormenti e delle paure che ci assalgono; non dobbiamo rifiutare le nostre fragilità non solo perché diventano la condizione necessaria per scoprire la vera felicità, ma soprattutto per quello che dice Angelina Mango nella canzone, perché qualcuno ci ha detto che oggettivamente “la vita è preziosa”, che val la pena viverla; esiste, infatti, un tesoro che ancora non abbiamo scoperto ma che noi non vediamo l’ora di conoscere, proprio come la protagonista del romanzo Le onde di Virginia Woolf: “[…] Tremo, vibro, come le foglie della siepe, quando sto seduta in punta al letto e dondolo i piedi, mentre il giorno nuovo comincia. Ho cinquant’anni, sessanta ancora da vivere. Non ho ancora intaccato il mio tesoro […]”.
Inoltre, queste domande, che vibrano dentro di noi, ci fanno sentire davvero uomini, perché l’insoddisfazione è ciò che ci caratterizza come uomini e ci distingue dagli altri esseri viventi: “Muoio perché morire/ rende i giorni più umani/ vivo perché soffrire/ fa le gioie più grandi”. La canzone ci invita a portare rispetto per questo sentimento di insoddisfazione e di inquietudine, a non nascondere la tristezza che deriva da una tensione inesausta all’infinito, alla compiutezza e alla perfezione. La noia fa parte di noi, del nostro dna, ci contraddistingue, anzi è “il più sublime dei sentimenti umani”, come avrebbe detto Giacomo Leopardi, e ci fa sentire che il nostro desiderio è infinito:“[…] il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana. […]” (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII). La noia è il sentimento che denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda ai nostri profondi desideri.
Proprio quando il cuore avverte una grande mancanza “un non so che di meno di quello che sperava, un desiderio di qualche cosa anzi di molto di più” (G. Leopardi, Zibaldone, 27 giugno 1820), in quel preciso momento stiamo gridando la nostra vera umanità. Chi è capace, come Giacomo Leopardi e Angelina Mango, di considerare la malinconia come “compagna eterna e inseparabile” (G. Leopardi, Lettera a P. Giordani, 2 marzo 1818), amica del cammino della vita, può davvero essere pronto ad affrontare l’esistenza, a vagheggiare progetti e non oggetti. Non può desiderare veramente chi non avverte la mancanza.
La noia, così, si trasforma in energia costruttrice che vuole indirizzarsi alla vita per darle consistenza e compierla. Il mondo in cui viviamo, la società in cui siamo chiamati a spendere il nostro tempo non può eliminare questo desiderio; anche se non ci offre risposte, non può spegnere l’ “inclinazione”, come afferma sempre Leopardi nello Zibaldone: “Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare […]”. Allora, “Non ci resta che ridere in queste notti bruciate/ una corona di spine/ sarà il dress-code per la mia festa/ è la cumbia della noia/ è la cumbia della noia”, è tempo di affrontare, così come siamo, la festa della vita; è tempo di far danzare e cantare la nostra noia sulle note della “cumbia”, canto e danza popolare colombiana a cui si è ispirata la cantante.
Per apprezzare il dono della vita dobbiamo imparare a desiderare e a fare esperienza della noia. In questo modo la vita non si appiattisce, ma genera un cambiamento della persona e diventa “La cumbia di chi cambia” per citare il titolo di una canzone di Adriano Celentano: “[…] Se c’è qualcuno c’ ha voglia di cambiare/ si faccia avanti/ si faccia avanti […]”. Per cambiare il volto della nostra esistenza non possiamo fare a meno della nostra vera natura, della “natural virtù” di cui parlava Leopardi in Sopra il ritratto di una bella donna…
Soltanto la noia ci permetterà di comprendere cosa stiamo aspettando, quale “rondine”, quale “amore” vogliamo che torni ad allietare le nostre giornate, quale “passo” manca alla nostra vita. La cumbia della noia che canta Angelina Mango è la condizione per riconoscere il “volo a metà” l’ “unico amore” che val la pena condividere, come cantava Pino Mango nel 2002 e la figlia, con la splendida cover proposta nella quarta serata del Festival di Sanremo di quest’anno: “Nonostante tu sia/ la mia rondine andata via/ sei il mio volo a metà/ sei il mio passo nel vuoto/ dove sei? Dove sei?/ Dove sei? Dove sei? Dove sei?/ unico amore che rivivrei […]”. La vita non è mai avara di risposte, quando si rimane aperti a lei con domande precise, quando si assapora il gusto del vuoto e dell’insoddisfazione. La noia non è chiusura, ma apertura, attesa di un incontro che dia valore alla vita, di un significato che riempia il vuoto interiore, come viene espresso dai personaggi di Cesare Pavese in Piscina feriale: “[…] siamo tutti inquieti, chi seduto, chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda”.
Siamo divorati dalla noia perché attendiamo.
D’altronde, ciò che rende bello il deserto è che “da qualche parte nasconde un pozzo”, come avrebbe detto il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.
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