Per Netanyahu, l’uccisione di Yahya Sinwar, capo di Hamas, è l’inizio della fine. Ma non intende certo la fine della guerra, quanto la resa dell’organizzazione palestinese responsabile dell’attacco del 7 ottobre. I piani di Israele, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, sono chiari: prendersi il nord di Gaza, anche a costo di affamare la popolazione locale, e attaccare l’Iran. Teheran, però, potrebbe rispondere per le rime e stavolta dalla sua parte ha anche la Russia, che ha avvertito Tel Aviv di non prendere di mira i siti nucleari iraniani.
Insomma, se il pericolo finora era quello, purtroppo avveratosi, dell’escalation regionale, ora c’è anche il rischio che la guerra diventi mondiale, e non solo perché ci sono gli USA di mezzo. Non cambierà niente, invece, per quanto riguarda gli ostaggi: Hamas, che intanto dovrà pensare a indicare un nuovo capo, vuole il cessate il fuoco, senza il quale non ci sarà nessun accordo.
Netanyahu ha detto che la morte di Sinwar è l’inizio della fine, cosa significa? Non sembra molto intenzionato a terminare le operazioni militari.
Netanyahu è stato chiaro, nel suo discorso l’inizio della fine della guerra è la resa incondizionata di Hamas, mentre nel nord della Striscia prosegue l’attuazione del piano di alcuni generali in congedo, reso noto da un portale della dissidenza, che prevedeva una sostanziale evacuazione, o per meglio dire espulsione, della popolazione da Jabalya. Secondo quanto previsto dai militari, nel caso in cui la gente avesse deciso di non andarsene, sarebbe stata considerata fiancheggiatrice dei combattenti, quindi oggetto di bombardamenti, affamamento e assedio. È quello che sta già succedendo: in questo momento è impossibile andarsene dalla fascia Nord della Striscia. Si tratta della parte meno mediatizzata della guerra.
L’attacco in Libano e l’uccisione di Sinwar hanno fatto passare tutto questo in secondo piano?
Non è che la guerra si ferma a un confronto con un gruppo di miliziani a Tell es Sultan in cui, per ammissione degli stessi israeliani, è stato ucciso per caso Sinwar. Contemporaneamente va avanti il bombardamento di tende davanti a un ospedale e di scuole trasformate in rifugio. Non c’è un interesse di Netanyahu a fermare i sette fronti di guerra su cui è impegnato: Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, milizie irachene e Iran.
Cosa significa la morte di Sinwar per Israele?
L’opinione pubblica israeliana si sta riavvicinando a Netanyahu. L’assassinio di Nasrallah, la decapitazione di alcuni quadri dirigenziali di Hezbollah, l’uccisione di Sinwar aumentano il consenso nei confronti del premier, che usa lo strumento della deterrenza, uno dei pilastri di Israele, attraverso il quale il Paese ribadisce di sapersi difendere in un contesto regionale avverso. Tutto ciò rafforza Netanyahu, che è per la guerra permanente.
Continuiamo a chiederci quando finirà il conflitto, ma la realtà è che Netanyahu vuole continuare?
Rimane la questione iraniana, con l’obiettivo di un vero e proprio scompaginamento degli assetti del Medio Oriente, in cui Netanyahu vuole coinvolgere del tutto gli USA, perché non può pensare di attaccare l’Iran senza gli americani. Un tema rimasto sul tavolo per tutto l’ultimo anno di Biden, come una delle questioni della campagna elettorale, più dei democratici che dei repubblicani.
In sintesi, quindi, qual è la strategia in atto?
Israele continuerà a bombardare. Una strategia articolata su diversi punti, uno assolutamente verificabile nei fatti quotidiani: sono due settimane che il nord di Gaza è sotto assedio, non entra uno spillo. Parlo di acqua, aiuti umanitari, cibo, dell’impossibilità di raccogliere i cadaveri per le strade. Questo è un pezzo di strategia che prevede di creare per Israele una fascia di sicurezza da cui se ne devono andare 400mila persone. È come la popolazione dell’intera città di Firenze.
Ma non ci si ferma qui.
Il punto numero due è colpire i campi profughi per chiudere la questione palestinese. Se a Gaza non c’è più distinzione tra palestinesi rifugiati del 1948, sotto l’ombrello dell’UNRWA, e gli altri, ma solo sfollati, Israele può pensare di aver chiuso la questione palestinese. Succede lo stesso in Cisgiordania e in parte anche in Libano. La questione palestinese si risolve espellendo più palestinesi possibile, quello che vuole da anni il sionismo messianico e religioso personificato da Smotrich e Ben Gvir: è la riconfigurazione del Medio Oriente.
La morte di Sinwar cambierà qualcosa anche nel dossier ostaggi?
Sinwar era radicale e pragmatico, un personaggio molto controverso. Hamas non ha mai cambiato la sua posizione sull’accordo possibile. Aveva detto già sì all’intesa a una condizione: gli ostaggi non torneranno se non ci sarà cessate il fuoco e l’uscita delle truppe israeliane da Gaza. Lo ha ribadito Khalil al-Haya, numero due di Gaza, che rappresenta il legame tra Sinwar e il politburo, oltre che possibile nuovo capo di Hamas. Non cambierà niente neanche in questo campo. La questione di fondo per movimenti con una gestione collettiva come Hamas è che non è il leader che fa il movimento, ma il movimento, radicato nel territorio, che crea i leader, che possono essere sostituiti.
Hamas e Hezbollah hanno la forza per reagire a questa situazione?
La forza militare di Hezbollah non l’abbiamo ancora compresa, Israele invece ha capito benissimo il rischio che corre. Le incursioni di terra delle truppe israeliane in Libano hanno fatto capire che i colpi dell’aviazione israeliana non hanno distrutto tutto il potenziale militare di Hezbollah, che non ha mostrato cedimenti e ha continuato a lanciare razzi. Hamas, invece, non ha più lo stesso dispositivo militare di prima. Bisogna vedere se questo significa la fine dell’ala politica di Hamas.
Cambierà qualcosa nelle strategie di Hamas?
Di sicuro c’è un indebolimento dentro Gaza. Il successore di Sinwar ci dirà quale direzione prenderà Hamas, se verranno messe insieme l’ala politica e quella militare. Sinwar impersonificava l’unione tra queste due ali, in un unicum che non c’è mai stato nella storia del movimento. Bisogna vedere se emergerà un successore tutto politico, dentro la diaspora, cioè dentro la leadership all’estero, o dentro Gaza. Oppure, ma mi sembrerebbe strano, se vogliono fare come leader politico un esponente delle brigate Ezzedin al-Qassam: sarebbe un cambiamento epocale.
L’Iran continua a dire che reagirà a un eventuale attacco di Israele e la Russia ha ammonito Israele di non colpire i siti nucleari iraniani. Che scenario possiamo immaginare?
Dipende cosa farà Israele per prima. Potrebbe assecondare la richiesta degli USA di una reazione limitata. Gli USA potrebbero aver dato il via libera all’operazione sul nord di Gaza proprio in cambio di un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran. Biden ha chiesto una risposta contenuta. Bisogna vedere cosa significa. Teheran reagirà in base a quello che farà Israele. E molto probabilmente lo farà subito.
Ma i russi potrebbero essere coinvolti direttamente? La guerra regionale potrebbe diventare una guerra mondiale?
Gli USA stanno già nell’area. Stiamo parlando di una guerra regionale in cui la più grande superpotenza, gli Stati Uniti, è coinvolta da un anno. E ci stupiamo se per caso la Russia viene coinvolta in questo allargamento del conflitto?
Quindi ora Israele continuerà gli attacchi a nord della Striscia e poi attaccherà l’Iran?
Israele potrebbe attaccare l’Iran mentre sta bombardando il nord della Striscia. Un’operazione, quest’ultima, di rilevanza mostruosa. Il diritto internazionale umanitario non prevede che per due settimane si chiudano i rubinetti dell’acqua, si bombardino le pompe idriche, e non ci sia nulla da mangiare, in un posto dove vivono 400mila persone.
(Paolo Rossetti)
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