La richiesta formale di adesione alla Nato da parte della Finlandia – a 9 maggio ormai scaduto per la Russia di Vladimir Putin in Ucraina – segna con molta evidenza l’inizio di un ennesimo dopo-guerra. Come è già avvenuto in passato, esso sembra precedere la fine della guerra guerreggiata.

Gli accordi monetari di Bretton Woods, nell’estate 1944, hanno disegnato in anticipo l’era successiva al secondo conflitto mondiale almeno quanto hanno fatto poi il vertice di Yalta (marzo 1945), la nascita dell’Onu (dicembre 1945), della Nato (aprile 1949) e del Patto di Varsavia (maggio 1955). La prima matrice di  “comunità europea” post-bellica (la Ceca) è datata 1950; il primo Patto a Sei è stato siglato a Roma nel 1957. Quale sarà il destino dell’Ue nel “Mondo Nuovo”



La mossa di Helsinki non appare priva di spunti significativi. Il Paese nordico – che nella Seconda guerra mondiale combatté contro l’Urss per difendere la  sua indipendenza – è assurto a simbolo planetario di neutralismo al punto che l’ipotesi di “finlandizzazione” era evocata per l’Ucraina ancora alla vigilia dell’invasione russa. E non è stato certo per caso se proprio nella capitale finlandese venne firmata, ancora nel 1975, la prima dichiarazione di principio fra Urss, Usa e Paesi europei volta al superamento della Guerra fredda. Se Helsinki, quasi cinquant’anni dopo, va oltre il “protocollo di Helsinki”, è la conferma che nulla potrà più essere come prima ai confini europei fra Occidente e Oriente: quelli via via marcati dopo il 1945 e dopo il 1989.



La Finlandia appartiene all’Ue dal 1995 e all’eurozona dalla “prima ondata” del 1999. La sua collocazione nell’architettura istituzionale europea – non meno che all’interno della “civiltà europea” – non può essere messa in alcun modo in discussione. L’adesione alla Nato matura d’altra parte in un contesto molto particolare. Essa avviene – in parte – attraverso il brokeraggio diplomatico della Gran Bretagna: per iniziativa dello stesso premier Boris Johnson che ha dato l’ultimo colpo d’accetta alla Brexit. E la Nato in cui Helsinki ha fretta di entrare è guidata da un Segretario generale europeo non-Ue come il norvegese Jens Stoltenberg: totalmente appiattito sulla linea bellicista Usa, ormai nettamente divaricata da quella “realista” della Ue franco-tedesca.



Il passo finlandese è del resto contemporaneo alla richiesta di adesione all’Ue da parte dell’Ucraina in trincea contro l’aggressione russa. E Mosca ha motivato la sua “operazione militare speciale” contro le (presunte) minacce portate dall’ipotesi formale che Kiev aderisse alla Nato. in (presunta) violazione degli accordi di Minsk del 2015, al termine della guerra civile che ha lacerato l’Ucraina dopo la “rivoluzione di piazza Maidan”. Ancora una volta: è noto che la “core Europe” (Germania e Francia) al di là della valenza più che simbolica del “modulo d’iscrizione” di Kiev a Bruxelles era e resta contraria a ogni escalation geopolitica. La priorità di Berlino e Parigi – cui è parsa associarsi con più determinazione l’Italia, dopo la missione di Mario Draghi a Washington – rimane il cessate il fuoco in Ucraina. In questa chiave, ogni ridisegno di mappa – geografica o diplomatica – potrà avvenire solo dopo. Cioè: non potrà non avvenire, ma non all’ombra di un costante risk-cloud costante di un attacco nucleare  o di un taglio improvviso di tutte le forniture di gas. Un riassetto geopolitico programmaticamente senza gli strappi cui ha voluto ricorrere la Russia putiniana: che appare peraltro già punita dalla realtà.

La Finlandia con passaporto Ue ha d’altronde i suoi dadi – a favore di una super-Nato subito, bruciando l’attesa di un “military compact” Ue – sul tavolo di un’Unione scossa (anche) dal caso-Ungheria. Forse non diversamente da Helsinki – anche se nel merito in direzione opposta – Budapest ha colto l’occasione della crisi ucraina per consolidare orientamenti in gestazione da tempo. Anzi: la quarta vittoria elettorale consecutiva di Victor Orban – a crisi ucraina già iniziata – può aver avuto sul Premier ungherese un “effetto Putin”, convincendolo (o illudendolo) di ritrovarsi in una condizione unica per regolare conti geopolitici. Quelli di Orban sono noti in termini formali: l’Ungheria (peraltro in compagnia della Polonia) è stata oggetto di un recente procedura d’infrazione per gravi violazioni “anti-Ue” sul terreno dei diritti civili. E la sanzione interna si profila tutt’altro che simbolica: è anzi legata agli strategici aiuti del Recovery Fund post-Covid. Non stupisce quindi la resistenza di Budapest al via libera a un nuovo step intermedio per le sanzioni Usa-Ue alla Russia riguardante l’import di petrolio.

Chi ha preso l’iniziativa per superare lo stallo ungherese è stato il presidente francese Emmanuel Macron, appena riconfermato da un suffragio popolare. Sono note sia la distanza storica sia la freddezza corrente di Parigi verso la Nato. E’ altrettanto agli atti l’intento di Macron di rivedere la governance economico-finanziaria dell’Unione: il cantiere era stato aperto – d’intesa (non entusiasta) con l’allora cancelliere tedesco Angela Merkel – poco prima che il Covid rimescolasse tutte le carte globali. È di dominio pubblico anche la road map tendenziale: costruire una “Maastricht-2” più flessibile nei parametri, ma anche nei meccanismi decisionali.

Fino a oggi la Germania merkeliana ha avuto buon gioco nel frenare l’attivismo francese e nel mantenere lo status quo con tutte le sue rigidità: una situazione in cui – in fondo – i Paesi est-europei e baltici erano utili a Berlino all’interno del format dell’unanimità nelle decisioni a Bruxelles. Oggi tuttavia l’opposizione di Budapest, ma anche la rigidità subalterna di un vicepresidente della Commissione come il lettone Valdis Dombrovskis non sembrano più utili al futuro di una Ue premuta da tutti i lati: da est e da ovest. È probabilmente giunto il momento di un ripensamento dell’Ue “qui e ora”, dell’unione economico-finanziaria.

È l’ora di una ri-verifica strategica di quali Paesi vogliono partecipare all’euro e a quali condizioni e regole decisionali (la Germania stessa sembra non più contraria a prescindere alla definizione di percorsi di convergenza delle singole economie-paese verso parametri meno elementari e datati di quelli stabiliti nel 1991). E non è affatto escluso – sembra anzi sempre più prevedibile – l’avvento di figure nuove nelle stanze dei bottoni della Commissione e della Bce.

Può darsi che il punto d’arrivo – inatteso fino a un certo punto – sia un’Europa a due (o più) velocità, ma non quella che poteva essere immaginata fino a un anno fa. Un’Europa, invece, ristrutturata in un patto atlantico rivisto anzitutto nel budget (e Donald Trump l’aveva messo in agenda già prima di Joe Biden) e in un’eurozona prevedibilmente sfoltita, certamente rilanciata. In mezzo resterebbe una “comunità” intermedia che non a caso Macron ha già ventilato. E’ in essa che potrebbe trovare posto l’Ucraina in pre-entrata; oppure – in pre-uscita – l’Ungheria che non partecipa comunque all’euro.

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