Le indagini sui dossieraggi che hanno al centro la società milanese Equalize sono in corso. Bisogna dire così non per mettere dei materassi preventivi sotto il mondo che sta crollandoci addosso. Ma per ragioni di giustizia e di morale è obbligatoria prudenza: finora, infatti, l’unica voce udita e udibile è quella dell’accusa. Essa peraltro è già stata vagliata da un giudice per le indagini preliminari il quale, applicando misure cautelari (tradotto: arresti), le ha ritenute dunque credibili. Nell’ordinanza di 518 pagine sono elencati fatti, disposte perquisizioni, decise detenzioni domiciliari, che a prima vista risultano blande rispetto ai reati ipotizzati e al pericolo per il bene comune che emerge dalle carte disponibili. Su 16 indagati infatti “solo” per 4 persone sono stati disposti provvedimenti restrittivi, spingendo la DDA (Direzione distrettuale antimafia) di Milano a chiedere al Tribunale del riesame provvedimenti più severi per tutti.
Premesse elementari
Due premesse elementari all’analisi che proporrò. La prima: non è consentito a nessuno, tantomeno allo scrivente, di definire responsabilità penali personali, mettendo in croce preventivamente chicchessia, semplicemente basandosi sulla trascrizione di intercettazioni e di fotografie. La seconda: l’enormità di quanto accaduto grida, esige una presa d’atto di fenomeni devastanti, e impone di domandarsi perché questo fenomeno criminale stia dilagando, e susciti al massimo curiosità, allarmi sulla natura perversa degli strumenti elettronici di penetrazione delle altrui vite, trascurando un dato culturale spaventoso. La tranquilla considerazione del valore nullo dell’altro, chiunque egli o ella sia, all’apice della scala sociale o sotto i tacchi, ma comunque ridotto a cosa vendibile, manipolabile, senza rimorso, con una facilità indecente a convincere persone dell’apparato dello Stato a rendersi disponibili per azioni ritenute alla peggio veniali, come un divieto di sosta per aver dimenticato il disco orario.
A questo siamo. Non si tratta di voyeurismo da poveri diavoli, ma di una distorsione profonda dello sguardo sul prossimo e in fondo verso sé stessi da parte di una società liquida, nel senso che ha liquidato, liquefatto, dissolto la memoria cristiana di che cosa sia il valore di tu che mi passi accanto, figuriamoci se sei solo un nome depositato in un archivio vastissimo e che dovrebbe essere un sancta sanctorum dove a entrare dovrebbero essere solo castissimi sacerdoti del bene comune.
La persona conta zero
L’ultimo caso. I procuratori Viola di Milano e Melillo della Direzione nazionale antimafia (DNA) hanno messo sotto i nostri occhi la più grande e invisibile rapina del secolo: quella degli affari privati, dei dati sensibili, della nudità interiore di almeno 800mila italiani. Questo è il numero dei fascicoli attinti dalla Banca SDI (Sistema di indagine) al Viminale di cui si è vantato uno degli indagati. Tutto è finito in un server fuori dai nostri confini. È bastato corrompere (questo dicono gli investigatori) alcuni addetti alla manutenzione dell’apparato informatico che avrebbe dovuto funzionare da cassaforte intangibile. Una porticina, una crepa. È come se fosse stato portato via con un corteo di Tir il film delle vite (in forma di dati finanziari, controlli, informative, cartelle cliniche, tendenze religiose, denunce senza seguito, indiscrezioni su costumi sessuali attenzionati, eccetera) di persone che a questo punto hanno la propria vita a disposizione di gente ostile che può distruggerti la vita. Ne parlo perché questo è stato il caso di un amico, contava solo per il suo lavoro, ma poteva essere di ostacolo a certe manovre: un dossier, illazioni, licenziato e via. Tutto è buono per ricattucci e ricattoni, con manipolazioni devastanti di individui e famiglie. Chiaro che se un dossier è venduto a servizi esteri, magari con la notizia di una malattia, di una privata fragilità, russi e cinesi, o loro intermediari, hanno una strada in discesa, se occupi una posizione interessante, per arruolarti come fonte.
Sono balle quelle raccontate da chi sostiene di non avere nulla da nascondere. Va bene, può essere. Ditelo al protagonista del Processo di Kafka. Ai milioni di ospiti del Gulag. Sapere quello che neanche noi sappiamo di noi stessi, sigillato in “file” da occhi senza rispetto, magari non sarà mai usato, ma deprime lo stato della vita comune degli uomini, la ferisce, trasformando il chiacchiericcio del villaggio in calunnia mercificata.
Le due storie precedenti
Altre due faccende – di diversa gravità – sono note, anch’esse oggetto di indagini inconcluse. C’è quella del bancario pugliese che – lui asserisce – per desiderio compulsivo di controllo ha potuto serenamente setacciare i movimenti dei conti correnti di autorità apicali e di gente comune, scavalcando qualsiasi ostacolo con facilità irrisoria. Questa è una vicenda secondaria, eppure emblematica, dell’accessibilità a go-go di conti privati di soggetti sensibili per la sicurezza nazionale.
Ben più grave di sicuro, per massa e qualità degli indagati, quello che il procuratore Cantone di Perugia ha definito “verminaio” (da cui il titolo Il Verminaio. I dossier dell’Antimafia del libro di Brunella Bolloli e Rita Cavallaro, con prefazione di Tommaso Cerno, Baldini & Castoldi): uno scandalo dove è direttamente coinvolta, come sede attiva di dossieraggio illegale, una istituzione dello Stato. A doppio manubrio, a quanto pare: uno visibile e meritorio, diretto a tutelare la collettività dalle azioni finanziarie dietro cui si celano ndrangheta, Cosa nostra e camorra; l’altro piegato a interessi ancora oggi misteriosi, dove sono implicate manine e manone di apparati di sicurezza e magistratura, uomini in divisa con addentellati dentro le mura vaticane (vedi i preveggenti dossieraggi di futuri imputati del processo Becciu). Si sono costituite commissioni parlamentari d’inchiesta per casi meno gravi, invece questa vicenda è silenziata, giace nella commissione Antimafia o è dormiente al Copasir. Perché? Ci sono ditini o ditoni posti sulle labbra da qualche alto papavero, come usavano le maestre per imporre il silenzio agli alunni giudiziosi e servizievoli?
La legge 124
Certo, in giro, e per fortuna, c’è un sentimento generale di fragilità. L’idea che non siamo difesi determina una pressione sacrosanta sulle autorità per far sì che il popolo non sia in balìa di bande criminali che infiltrano la Fort Knox dov’è conservato l’oro più prezioso dell’oro, che sono i dati sensibili il cui possesso a fini di lucro – hanno scritto nelle carte i pm della DDA di Milano – determina “un pericolo per la democrazia”. Giorgia Meloni ieri ha ammesso con amarezza che quanto sta accadendo è qualcosa che “nessuno Stato di diritto può tollerare”. E chi deve muoversi e perché, davanti a una simile minaccia? Esiste una legge che stabilisce obblighi precisi. È la 124 del 2007 intitolata proprio “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”. All’art. 7 assegna all’AISI (Agenzia informazioni sicurezza interna) la responsabilità del controspionaggio. Comma 1, all’AISI è “affidato il compito di ricercare ed elaborare (…) tutte le informazioni utili a difendere la sicurezza interna della Repubblica e le istituzioni democratiche (…) da ogni minaccia, da ogni attività eversiva e da ogni forma di aggressione criminale o terroristica”.
Siamo il primo Paese in Europa per penetrabilità dei nostri big data da parte degli hacker. Com’è possibile? Un complotto dello Stato contro lo Stato, per far cadere questo governo? Personalmente non credo proprio a una mostruosa Spectre interna. Esiste piuttosto la grande silenziosa congiura dell’omissione, della passività sistemica – fatta salva la dedizione, talvolta fino all’eroismo, di numerosi singoli – di un apparato che per legge dovrebbe assolvere questo lavoro.
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