Se pensate che un attempato pensionato della polizia, assieme ad un paio di manager di medio livello possano fare un decimo di ciò che la società da loro fondata ha fatto, vuol dire che amate le gustose favolette. La Equalize non può essere un errore di sistema o un bruco sotterraneo cresciuto senza che nessuno se ne accorgesse. Non può esserlo perché se così fosse, dal ministero dell’Interno in giù dovrebbero tutti andare a casa. Rimettere il mandato nelle mani di Mattarella e fare un governo di salvezza nazionale. Perché se un gruppetto di persone, neppure ricche, hanno potuto costruire una tale rete di contatti, accumulare una tale quantità di informazioni e usarle a favore di chi le chiedeva, è già di per sé incredibile. Ma pensare che un esperto poliziotto abbia potuto fare tutto questo senza che nessuno se ne accorgesse, allora vuol dire che siamo in una favola che vogliamo farci raccontare. Bucare sistemi informatici, creare dossier unendo fatti come pedinamenti e dati informatici non è roba da fessi. E pensare che tutto filasse liscio non ha molto senso.
Ha senso, purtroppo, pensare che chi ha agito si sentisse – a torto o a ragione – coperto ed inquadrato. Da chi è per far cosa è la vera domanda, a cui si spera si dia una risposta. Non come capita da qualche mese, in cui i vari spioni, da quelli delle Sos (segnalazioni di operazioni sospette) a Roma, al bancario pugliese, passando per il geniale hacker milanese si dichiarano tutti affetti da patologiche curiosità o mero zelo professionale o banale venalità, senza mai dire per chi o per cosa questi presunti vizi fossero contratti. Quel che conta è ciò che sta accadendo. E francamente non è l’enormità del buco della sicurezza informatica o la permeabilità delle forze dell’ordine a dare informazioni. Quello che conta davvero è chi, e per cosa, aveva messo in pista i personaggi riportati dalle cronache e se tutti loro avessero avuto, in qualche modo, coperture, indicazioni o, per dirlo con chiarezza, ordini.
Ciò che appare drammaticamente chiaro, infatti, è che la mole di attività poste in essere, e la qualità delle attività offerte, sono più da proxy agency dei servizi piuttosto che opera di artigiani della spiata. E non tragga in inganno il condimento di ipotetiche storie “private” lasciate intendere dai giornali. Quelle servono a distrarre dalla vera natura delle operazioni ben più profonde appena accennate, dal rintraccio di oligarchi russi ai rapporti con il Mossad, passando per la loro dichiarazione di collateralità con le strutture antimafia e con i servizi. Cose archiviate come millanterie, ma che i fatti fanno intendere siano più vicine alla realtà di quello che vorremmo credere.
Dunque non c’è nessun gruppetto di folli fuori controllo. Sembrano piuttosto falangi avanguardiste mandate a fare lavori particolari, che si sono allargate ad altri campi meno riservati, e più lucrosi, per tenere in piedi la struttura. Più un servizio esterno dei servizi che un’agenzia investigativa aggressiva nel metodo. Ed allora perché farli venire allo scoperto? Forse proprio perché l’operazione ha trasbordato e chi l’ha promossa si è accorto di aver creato una mostruosa anomalia che non poteva essere più gestita. E perciò ha bruciato gli “spioni”, facendoli apparire per una manica di curiosoni torbidi.
E speriamo sia così. Perché se così non fosse dovremmo chiederci a chi appartiene lo Stato con le sue prerogative. Se ai servizi segreti, al ministero dll’Interno, alla magistratura ed alle forze di polizia, che violano le vite di alcuni per tutelare quella di tutti, o se appartiene a gruppi di privati che, se ben si organizzano, si fanno Stato nello Stato, senza neppure tanti soldi e con grande velocità.
Insomma, o è una fallita operazione dei servizi o di altre forze dello Stato, deviate o meno, o è il più grande fallimento della storia del nostro Stato. Scegliere non è facile, e non si sa davvero – per ora – se si riuscirà a fare chiarezza. La magistratura ad oggi non ama dare risposte su questo scontro sotterraneo tra depistatori, spioni e spiati; dai tempi di Palamara, passando per lo scandalo Sos, da Amara ai dossier di Montante e della sua banca delle spie, niente è chiaro e nitido. Tutto dorme e si appisola, mentre lo scontro va avanti nei sotterranei. E stavolta il rischio è che, prese le avanguardie cattive, ci si accontenti di dare dello sprovveduto ad un poliziotto in gamba e farlo passare per uno sciocco che non sapeva cosa stesse facendo; fregandosene di capire chi, come e quando gli abbia aperto la strada e mostrato la via.
Del resto a noi piacciano, come italiani, queste storie a metà, senza fine e senza logica, in cui tutto resta poco chiaro e poco comprensibile, dove basta una superficiale verità di comodo. Perciò, proveranno a convincerci che un gruppetto di sprovveduti abbia fatto la più grande operazione di spionaggio strutturale che il Paese ricordi. Tutto da soli e con pochi soldi. Del resto la bellezza delle favole è questa. Sono consolanti, perché ci danno l’idea che alla fine Cappuccetto rosso esca dalla pancia del lupo assieme alla nonna ancora integra dopo che il cacciatore l’ha prelevata dalla viscere della bestia. Accade solo nelle favole, dicevano i nostri nonni, ma quella era una generazione seria.
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