Posso dirlo? A me ‘sta roba della “bellezza che salverà il mondo” comincia a starmi un po’ sulle scatole. Roba da Baci Perugina. Ma che cavolo vuol dire poi? A parte citarla ogni due per tre…

Bellezza: abbiamo reso la parola, e dunque la cosa, urticante. Roba da mal di denti per carie procurata per eccesso di zucchero. La grande bellezza. Bellezza di qua, bellezza di là. Tutti figli della bellezza, brutti come siamo. E nella parte più importante, cioè dentro.



Mio Dio. Mica è colpa della bellezza, o del principe Myskin. E tanto meno di Dostoevskij. Colpa nostra. Che ogni volta che ci appropriamo di una parola che ci piace, la strapazziamo di coccole, la ricopriamo di zucchero vanigliato, e bla, bla, bla…

In realtà l’opera di Dostoevskij la si può comprendere soltanto se si è disposti a farsi trascinare negli abissi. A farsi dilaniare dal maligno fino a che Qualcuno non accenda il lumicino dell’angelo. Nel nero più nero sta la Bellezza, e il mondo si salva solo all’ultimo millesimo di secondo in un’esplosione totale di luce. E soprattutto se non si perde di vista il cristocentrismo di Dostoevskij, polemico proprio nei confronti dell’espressione e dell’esperienza di cristianesimo occidentale. Si potrebbe dire: del suo adattamento borghese fondato sostanzialmente sul pilastro dei “vizi privati e pubbliche virtù”. O, per dirla con Jacques Rivière – citato da André Gide nel suo Dostoevskij (Medusa, 2013) – “Noi (…) posti di fronte alla complessità di un’anima, per quanto cerchiamo di rappresentarla, d’istinto tendiamo a organizzarla”.



È proprio questa esigenza di adattamento organizzativo che ci tiene lontani dal vero Dostoevskij. O meglio, ci induce a costruire a nostra misura un altro Dostoevskij. E tolto dalla dimensione “altra” che porta il nome di Russia, Dostoevskij è davvero incomprensibile. Non si tratta, beninteso, di storicizzare, di traslare, di adattare. Al di qua degli Urali, Dostoevskij è un impossibile o, come sostiene Gide, “resta colui del quale non si sa come servirsi”.

Le sei conferenze che l’autore de La porta stretta tenne al Vieux-Colombier di Parigi nel 1923, costituiscono uno straordinario intreccio di riflessioni che svelano la totale alterità di Dostoevskij rispetto al nostro rachitico approccio alla superficie del suo mondo. Credo ci sia molto di tale impossibilità nel Gide de La porta stretta in cui l’amore, l’amore umano, diviene innanzitutto un paradosso. Ma ciò che per l’Occidente è paradosso, per l’oriente dostoevskiano è sostanza di realtà, è tremenda e mortale ferita spirituale, che nulla ha di astratto e nemmeno di eccezionale. È lingua mai purificata, linguaggio d’esistenza, coerenza e consistenza naturali tra la parola e la cosa, con ogni annesso e connesso inquinante. È quello che André Gide chiama la rappresentazione dell’incubo, la parte più reale della realtà.



Tale paesaggio inquinato e, per questo, vitale noi l’abbiamo totalmente ripulito. Siamo stati sottoposti, dal Rinascimento in poi, ad un’operazione di pulizia che non ha risparmiato l’esperienza religiosa stessa. Algidi, siamo, dunque incapaci di comprendere la bassezza redentrice che sta alla base della visione cristocentrica di Dostoevskij. Il maligno (persona fisica) l’abbiamo concettualizzato nel Male. Cristo l’abbiamo idealizzato, e ucciso un’altra volta, nel Bene. Insomma, idee. O, con una parola che dà l’orticaria, valori o disvalori.

Sono queste personalità del Cristo e di Satana, così come ci vengono presentati soprattutto nell’Apocalisse, il vero punto di riferimento evangelico di Dostoevskij, il motore di ogni azione dei personaggi della sua letteratura ed è proprio l’operazione di depotenziamento della realtà fisica di Satana e di Cristo, che costituisce lo snodo polemico di Dostoevskij nei confronti della Chiesa cattolica e del suo appiattimento al razionalismo moderno. “Si scrivono tanti libri e si perde di vista il fatto principale: nell’Occidente si è perduto Cristo… e l’Occidente muore di questo, unicamente a causa di questo”. Insomma: “si è perduto Cristo: per colpa del cattolicesimo”.

E di questa astrazione moraleggiante è intriso il principe Myskin, l’idiota, di ritorno in Russia dal soggiorno svizzero. “Oh, principe, fino a che punto è ancora svizzero, dirò così, il vostro modo di comprendere l’uomo” lo rimprovera Ippolit, il tisico moribondo che tutto può dire, perché potenzialmente defunto, in lotta contro i doppi pensieri, e che desidera morire eloquentemente; in questa smania di alzare la parola al di sopra del nulla, pone all’idiota la domanda cruciale, con un pizzico d’ironia: “È vero principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza?”. “Quale bellezza salverà il mondo?”. E ancora: “Che posso trovare in tutta cotesta bellezza, quando adesso, ogni minuto, ogni secondo devo sapere, son costretto a sapere che anche questo minuscolo moscerino ronzante intorno a me in un raggio di sole partecipa a quel banchetto e a quel coro, e sa il posto suo e lo ama ed è felice, e io solo invece sono un aborto e unicamente per la mia pusillanimità non l’ho voluto capire finora”.

Sembra quasi che quella frase buttata lì, quasi a caso, sia una piccola trappola intellettuale per l’europeo. Il russo, ad una battuta così, contrappone una sonora risata. Noi soli ce ne innamoriamo. Perché noi siamo figli di Hermann Hesse e di Saint-Exupéry, mica di Puskin o di Gogol.

(1 – continua)