Quella del giovane Ippolit è una dichiarazione d’ateismo. Ma anche l’ateismo per Dostoevskij possiede da una parte una sua originale natura russa e dall’altra una banale natura europea. Eroico, tragico, e personale il primo. Di massa e superficiale il secondo. L’ateismo russo presuppone l’esistenza di Dio, l’interlocutore sconosciuto e silente. Dio diventa, in altre parole, l’oggetto di una sfida. Basti il dialogo di Ivan con il diavolo nei Karamazov, per comprendere quanto il nulla e il tutto respirino il medesimo ossigeno.



E in egual misura Kirillov nei Demoni nel momento in cui sta per mettere in atto il suo proposito suicida torna sull’impossibilità che convivano in testa due idee contrapposte. La prima: “Dio è indispensabile, e perciò deve esistere”. La seconda: “Ma io so che non esiste e non può esistere”. E contro Stavrogin che attende la sua fine per poter realizzare il proprio proposito diabolico (uccidere un uomo e addossarne la colpa al suicida) inveisce: “Possibile che tu non capisca che ci si può uccidere per questo?” “Se Dio c’è, tutta la volontà appartiene a lui, e io non posso sottrarmi alla sua volontà. Se invece non esiste, allora tutta la volontà è mia e io sono tenuto a proclamare il mio libero arbitrio (…). Sono tenuto a uccidermi perché appunto questa è la più completa manifestazione del mio libero arbitrio: uccidere me stesso”. Kirillov, il puro, il silente, l’inadatto assume su di sé un compito storico: “Io sono tenuto a proclamare la miscredenza”.



E tuttavia, questo io espanso non smette di avere un interlocutore scomodo: un Lui negato che tuttavia, proprio perché apparentemente assente, pone la domanda cruciale, cui solo un ateo tragico o un mistico innamorato può rispondere: “Per che cosa si deve vivere? Rispondimi, se sei un uomo”.

La presenza di infinite antitesi, che diverte la modernità occidentale, è incomprensibile nei dintorni di Pietroburgo o di Mosca. Anzi, è inaccettabile. È matrice di ogni perdizione, tormento che costa la vita. Ma noi non possiamo capire. Per questo ci soffermiamo, stancamente e stupidamente, sulla bellezza che salva il mondo, l’asserzione più inutile e sciocca uscita dalla bocca di Myskin, anche se mai pronunciata direttamente (viene citata ironicamente una volta, come già detto, dal morente Ippolit e una volta come rimprovero dalla bellissima Aglàia).



Quel che per noi è difficile comprendere è che il dualismo razionale, nell’universo dostoevskiano, non ha alcun senso: così l’ateo si uccide per amore di Dio o, come rileva Gide, “mai l’eroe è più vicino all’amore di quando ha appena esagerato il suo odio, e mai è più vicino all’odio di quando ha sentito eccessivamente l’amore”. Quando, anche per un solo istante, l’idea doppia si presenta nella sua veste di razionalità all’europea, l’uomo russo ne è dilaniato. E l’uomo dilaniato è essenzialmente un uomo delittuoso.

Il delitto: ecco un altro stato dell’esistenza assai incomprensibile alla nostra sensibilità etico-giuridica. Tuttavia è proprio il delitto, in Dostoevskij, la manifestazione più alta della prostrazione dell’umano all’insondabile Dio incarnato. E tanto più è gratuito e insensato, il delitto assume le fattezze di gesto religiosamente orientato. L’omicidio è in sostanza un atto perfettamente religioso. Come possiamo comprendere, noi, tale assurdità? Ma ciò che per noi è assurdo, per Dostoevskij è materia prima redentiva. Una sorta di processo di santificazione per difetto.

Il delitto, ovvero il perpetuo trionfo dell’intelletto fino al momento in cui esso è perpetrato, e insieme il punto di svolta della redenzione subito dopo il suo compimento. C’è insomma un prima e un dopo che non sono la stessa cosa.

Proprio nell’Idiota Dostoevskij rende palese questo trasmutare della coscienza, nella narrazione del delitto d’occasione – e per nulla coerente con la storia che è narrata – cosiddetto dell’orologio. Lo annota anche Gide, nella seconda conferenza del Vieux-Colombier. Il principe Myskin fa quattro incontri particolari. Uno di questi avviene in una locanda dove l’idiota trova posto per dormire: “La sera mi fermai in una città di provincia: all’albergo dove sostai tutti parlavano di un assassinio che era stato commesso in quella stessa casa la notte precedente. Due contadini d’una certa età, due vecchi amici, e nessuno dei due era ubriaco, avevano preso il tè, poi erano andati a coricarsi (avevano chiesto una camera comune). Uno di questi viaggiatori aveva notato, da due giorni, un orologio d’argento appeso a una piccola catena di perle di vetro, che il suo compagno portava e che lui non gli aveva mai visto prima. Quest’uomo non era un ladro, era onesto e molto agiato, per essere un contadino. Ma quell’orologio gli piacque tanto, ne ebbe una voglia così furiosa, che non poté dominarsi: prese un coltello, e, appena il suo amico gli ebbe voltata la schiena, si avvicinò a lui a passi cauti, studiò il posto adatto, alzò gli occhi al cielo, si fece il segno di croce e mormorò devotamente questa preghiera: Signore, perdonami per i meriti di Cristo. Sgozzò il suo amico in un colpo solo, come una pecora, poi gli prese l’orologio”.

La questione capitale, nell’opera di Dostoevskij, sta proprio nella ratio del delitto. A che serve uccidere? L’omicidio è semplicemente lo sbocco pratico del pensiero, la conseguenza inevitabile, la sostanza dell’incubo. Verrebbe da dire che per Dostoevskij è necessario uccidere. 

Con il delitto la razionalità s’incarta e sul piatto resta solamente il non senso di un dialogo impazzito e tuttavia purificato, privo della logica umana, la cui sintassi ha valore unicamente per i meriti di Cristo. Solo dopo aver compiuto il delitto gli eroi dostoevskiani iniziano davvero a parlare in modo univoco. Il delitto è il modo più alto di mettere fine al dualismo infido presente nel tormentato animo russo. Ateismo e fede, finitezza e immortalità, odio e amore, ordinarietà e straordinarietà, il cenobio e il mondo, Nastas’ja e Aglaja, Katerina e Agrafena, finanche città e campagna. Doppio pensiero, dualismo, tesi-antitesi: eccolo il grande peccato. Il delitto cova nel dover scegliere.

(2 – continua)