A metà maggio uscirà Daddy’s Home, ultima, attesa fatica discografica della chitarrista, musicista, produttrice, cantautrice Annie Clark, meglio nota al mondo degli esperti e dei fan come St. Vincent, nome con cui ha identificato il suo progetto.
“Nessuna è come lei: è una musicista vera, non una produttrice di meme formato canzone; ha un’etica del lavoro spaventosa; incarna un’ideale di coolness irraggiungibile in un’epoca in cui le dive cercano di convincerci che sono proprio come noi; inscena nella musica e in tutto ciò che le sta attorno, concerti foto grafiche, il rapporto dialettico fra persona (Annie Clark) e personaggio (St. Vincent), rendendo difficile capire dove finisce l’una e comincia l’altro.” Il passo virgolettato è tratto da uno straordinario articolo a firma Claudio Todesco, leggetelo su Rolling Stone cliccando il link. Todesco va molto in profondità nell’analisi dell’album e dell’artista. A me ha colpito particolarmente un passaggio in cui l’artista descrive se stessa e la dinamica persona/personaggio: «Mettiamola così. La mia personalità è un mixer, di quelli da sala d’incisione, presente? Ci sono vari potenziometri: uno è l’ego, un altro è il senso dell’umorismo, un altro la vulnerabilità e così via. Ogni volta che questi potenziometri vengono alzati o abbassati nasce una diversa iterazione di St. Vincent. È tutto dentro di me, da qualche parte. St. Vincent è Annie Clark che gioca col mixer». Aggiungiamoci che la personalità musicale della Clark è fuori dal comune anche perché a 8 anni ascolta e apprezza gli Steely Dan e impara a muovere le mani sulla chitarra in braccio allo zio Tuck Andress (se non sapete chi è, o non avete mai sentito parlare di Tuck and Patti, prima andate a confessarvi e poi aprite Google e youTube e ravvedetevi).
Facciamo un passo avanti. St. Vincent ci ha abituato negli anni alle sue mutazioni, passando per le sperimentazioni (sonore – testuali – formali) più diverse ed estreme. Ora, nei due singoli che sono usciti come anticipazione all’album, si rivolge decisamente agli anni ’70. E lo fa con la coscienza, dichiarata apertamente, di essere un nano sulle spalle di giganti. Ascoltare le due canzoni, meglio se facendo scorrere il testo mentre si ascolta in cuffia, costruisce un altro pezzetto della riflessione che voglio aprire, anche se ci sto mettendo un po’ più del previsto.
Bastano le prime note (e le prime parole, la grafica del lyric video) di The Melting Of The Sun per capire subito dove siamo finiti. Ci aiutano ancora le parole dell’artista, riportate nell’articolo di Todesco: “Mettiamola così: negli anni ’70 c’è stata la grande fusione di forme musicali americane come rock, funk, soul, jazz che ha creato dischi assieme sofisticati e musicali. Ecco, io volevo fare qualcosa del genere. Ho riascoltato gli album che sentivo da piccola e mi sono chiesta: com’è che sono tanto belli? Che cosa li rende interessanti?”. Ottimo punto, salvatelo un attimo sul desktop.
Nell’altro singolo (o meglio, nel Lato B del 45 giri) Pay Your Way In Pain racconta le disavventure quotidiane (resta il dubbio: di chi, Annie Clark o St. Vincent), facendo agire il frullatore (mixer si può tradurre anche così) in maniera diversa, con una tavolozza di colori sonori più ricca e multiforme.
Proviamo a tirare una prima riga, un subtotale: il passato è sempre presente in chi fa musica. Le questioni importanti sono due: quanto pesa e come lo si tratta.
I primi due singoli di St. Vincent mi hanno fatto venire in mente alcuni lavori di Beck, che ormai quasi trent’anni fa muoveva i suoi primi passi tagliando e cucendo frammenti dei mondi che amava. Per venire alle nostre latitudini, uno su tutti: il Daniele Silvestri di Salirò, che nel 2002 già riprendeva suoni ed iconografia del funky e della disco di un quarto di secolo prima. Atterrando su qualche esempio dei giorni nostri, è di questi giorni l’uscita del nuovo album di Lana Del Rey, altro tipo di artista rispetto a St. Vincent, ma anch’essa rivolta esplicitamente ai suoi punti di riferimento musicali del passato (e con una cover della bellissima For Free di Joni Mitchell come ultima traccia, (cover, peraltro, pressoché letterale). Di non molto tempo fa è la svolta folk (o meglio il ritorno a casa, un po’ più profondo) di Taylor Swift. Arrivando alle nostre latitudini, interessante come i Pinguini tattici nucleari rimescolino nei loro arrangiamenti molti elementi dei generi che hanno amato. La dipendenza di Fulminacci da Lucio Battisti è tanto palese, quanto riconosciuta dall’artista medesimo. Addirittura capita di poter far risalire allo stesso modello due canzoni di artisti differenti, uscite pressappoco nello stesso momento. Provate a confrontare La vita veramente dello stesso Fulminacci (video geniale, fra l’altro) con Giorni buoni di Dimartino e vedete quanto siano attinenti/dipendenti/ispirate (scegliete voi il participio) ad Amarsi un po’. E in realtà anche l’apparato sonoro e l’apparizione danzante della disco-pattinatrice, nell’ultimo Sanremo, sulla Musica leggerissima del già citato Dimartino con l’aggiunta di Colapesce ricordavano parecchio il ballerino sanremese dell’altrettanto già citato Daniele Silvestri di Salirò. E ora scusate il successivo esempio balzano ai limiti della blasfemia artistica: come se – fatte le debite proporzioni – in un suo dipinto Caravaggio “citasse” Leonardo in una sua “citazione” di Giotto. Punto e a capo.
Conclusioni, che in realtà sono domande aperte. L’impressione (mia, totalmente mia) è che spesso si metta molta enfasi sul presente, sul trovare nuove forme, nuove maniere, nuove canzoni, ma poi per trovare qualcosa che convinca veramente e che duri devo attingere a piene mani dal passato. E non solo banalmente per qualche riferimento iconografico o di stile, proprio cercando di ricreare quel mondo sonoro. La differenza mi pare proprio questa: oggi che si può fare tutto con un click (produrre musica è diventato enormemente più facile), per ricreare la magia occorre tornare a fare musica veramente, a registrare strumenti veri (e saperli suonare), a ri-impastare il tutto di belle melodie, ma anche sudore e realtà (vera, non virtuale). Annie Clark citata da Todesco ci ammaestra ancora una volta: “Oggi la musica popolare è guidata dai produttori e beat programmati, io ho preso un’altra strada, al linguaggio ritmico ho preferito quello armonico. Siamo tutti quanti il prodotto di quello che ascoltiamo. Se fossi nata trent’anni dopo forse farei musica con un laptop.”
Questo dal punto di vista di chi la musica la fa. Dal punto di vista di chi ascolta, si apre una questione altrettanto grossa, che qui posso solo sfiorare, rilanciandola. I super fan di artisti contemporanei rischiano (a mio avviso) di vedere capolavori dove talvolta non ci sono. Al contempo denigrano una certa fetta di ascoltatori che – per converso – si rivolge, per così dire si arrocca nell’età d’oro ormai tramontata e irripetibile. Eppure, come mostrato sopra, tanti degli artisti contemporanei si rivolgono proprio al passato per trovare nuova linfa per le proprie canzoni, e questo va individuato e riconosciuto. Si crea un corto circuito da cui credo si possa uscire solo con il buon senso e non appartenendo ad uno schieramento piuttosto che all’altro (età anagrafica e scontro generazionale a parte, una visione ideologica può esserci da entrambi i lati), ma ascoltando quello che c’è, valutandolo con il setaccio del proprio gusto e delle proprie radici e confrontandosi serenamente. Dopotutto stiamo parlando di musica.
La chiave quindi non è il nuovo a tutti i costi o l’ossessione per il vintage, entrambe fini a se stesse. È guardare chi fa musica davvero e chi invece perché deve farlo. Lo riconosco, ho chiuso con la più ampia delle generalizzazioni, ma non stiamo parlando della ricetta del tiramisù. Con tutto il rispetto per il tiramisù, la musica è un mondo vasto e sfaccettato, e ognuno può trovare la sua strada, scoprendo e confrontandosi. Però deve essere aperto, onesto e possibilmente senza pregiudizi. Poi approfondisce e giudica, serenamente. Io ci provo.