L’Italia del rapporto Censis, con il consueto intuito che caratterizza quest’istituto, alimentato da una pratica costante a osservare il Paese da oltre mezzo secolo, ci restituisce tra i tanti elementi l’immagine di un timore diffuso, pronto ad avallare qualsiasi misura, a qualunque costo. Di fatto, se ancora non ce ne fossimo resi conto, si sta delineando in Italia, accanto alla pandemia del virus, una seconda e forse più grave pandemia: quella della paura.
E la paura non fa sconti, né conosce distinguo. Gli italiani che hanno superato i settant’anni (attualmente sono più di dieci milioni) vivono, a ragione, con il fiato sul collo sentendosi oggettivamente a rischio. Sanno che le istituzioni in Italia non hanno mai goduto di una grande fiducia e temono che gli avvisi di queste ultime restino inascoltati. Da qui la ricerca del nemico, quella dei nuovi untori, ai quali comminare pene carcerarie severe, quando non addirittura la “pena di morte”. “La vita ci interessa più della libertà!”, “prima la salute!” e “in galera chi contagia” sottoscrivono gli intervistati.
Sono affermazioni che pesano con tutta la logica granitica del senso comune. Come potersi opporre? Hanno ragione, semplicemente. Tra la morte e la sudditanza è molto meglio quest’ultima, ed è nel “meglio sudditi che morti” che La Stampa riassume l’intero rapporto.
In realtà il Censis dice anche altre cose. Ad esempio, che il 50,3% dei giovani vive in una condizione peggiore di quella vissuta dai genitori alla loro età, interrompendo così un’evoluzione che durava dal secondo dopoguerra. Così come sempre il rapporto Censis ci dice che sono almeno 5 milioni gli italiani che, impiegati intorno all’industria della ristorazione e del tempo libero, hanno semplicemente perso il lavoro, finendo “per inabissarsi senza fare rumore”. È l’area della marginalità permanente, è la fascia che vive intorno ai sussidi e ai lavori precari che riesce ad ottenere, sostenuta quasi sempre dalle reti famigliari e dal capitale di relazioni sociali che intrattiene. È l’area che resta in attesa di entrare in quelle stesse aziende che però stentano a ripartire e che le misure di chiusura incitano serenamente a rinunciarvi. Tanto è vero che solo il 13% degli intervistati – sempre nell’indagine Censis – si è dichiarato pronto a rischiare aprendo di nuovo un’impresa.
Certamente è vero che è meglio essere “sudditi che morti”, a condizione che la “sudditanza” ci assicuri veramente una protezione efficace dal virus. Perché se vogliamo tutti difenderci dal Covid e sconfiggerlo, dobbiamo anche saperlo fare.
La Fondazione Hume ha osservato come, nonostante i nostri radicali lockdown, il nostro numero di morti sia tra i più alti d’Europa, siamo secondi solo all’Olanda. È interessante notare che il Regno Unito di Boris Johnson, con tutte le singolari rivolte di piazza contro la chiusura dei pub, registri un numero di decessi del 24,5% inferiore al nostro. Per non parlare della prode Germania, che pur registrando anch’essa delle vivaci e pericolose reazioni di protesta alla mascherina e ai lockdown, presenta una percentuale che è quasi un quarto dell’Italia. Superata per di più dalla Svezia, che è riuscita a fare ancora meglio, pur adottando strategie diverse. E per finire, ci sono quattro Stati (Irlanda, Danimarca, Norvegia e Finlandia) che non avuto nemmeno la seconda ondata.
Ogni paese che ha evitato la seconda ondata ha adottato, come osserva Luca Ricolfi, un mix di strategie proprie, ad eccezione di un solo tratto comune: il controllo alle frontiere, l’unica decisione che li ha realmente accomunati e che costituisce esattamente quella che noi non abbiamo saputo/voluto adottare, per interessi economici, per i principi “a prescindere” del politicamente corretto, ma anche – e forse soprattutto – per quella cronica incapacità organizzativa che costituisce il vero tallone d’Achille del nostro Paese.
Questi dati ci dicono come la logica binaria non funziona. Non si tratta di scegliere tra la morte e la sudditanza. Né, ancor meno tra la sopravvivenza fisica e quella economica. Lo scivolone nelle dicotomie è tanto isterico quanto inutile. Il delirio della caccia all’untore segna in realtà il punto zero del nostro minimalismo sociale. Se la “pandemia del terrore” può rivelarsi utile ad alzare il controllo sociale sugli assembramenti, consentendoci di evitarli, tuttavia rischia non solo di illuderci, facendoci credere che, da sola, possa bastare, ma soprattutto ci nasconde le pesanti conseguenze che comporta.
Se il Covid distrugge le vite, la pandemia del terrore distrugge tutto ciò che ci resta nel rendere la vita degna di essere vissuta. Così dal divieto dei funerali, passando per i coprifuoco serali, siamo arrivati al Natale in sei. Uscire dall’isteria e recuperare la serenità per affrontare con attenzione la pandemia, coscienti di operare su di un corpo sociale vivo, dove ogni divieto implica qualcosa di più di una semplice “pausa di riflessione”, costituisce oramai la più fondamentale delle urgenze.