A volte ritornano, così si intitolava una raccolta di racconti di Stephen King. Non è certo una storia horror, ma l’ultimo Dpcm sul green pass ci pone di fronte allo stesso spaesamento che si provava leggendo i tanti Dpcm che si sono susseguiti nell’epoca del Covid. Avevamo sperato che questa pratica fosse stata abbandonata, lasciandoci alle spalle le tante polemiche sull’autocertificazione, sul significato dei “congiunti”, su quanti metri quadrati fossero disponibili sotto gli ombrelloni, su quanti metri lineari si potessero percorrere dalla propria abitazione.
Adesso, con il Dpcm del 21 gennaio – che applica quanto previsto dal decreto legge, ancora non convertito in legge, n. 1/2022 – si definiscono quale siano le “esigenze essenziali e primarie della persona” per far fronte alle quali, dal 1° febbraio, negli ambienti chiusi non sarà richiesto il green pass in relazione alle seguenti attività e servizi: pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari, e attività commerciali. Definizione ardua, e che, a quanto sembra, sarebbe stata resa ancor più difficile dalla presenza di alcune controversie che hanno strenuamente impegnato il decisore, come ad esempio quella relativa ai tabacchi: fumare una sigaretta o un sigaro sarà mai un’esigenza primaria o no?
Al di là della facile ironia, è evidente che definire le “esigenze primarie ed essenziali della persona” è una questione di non poco conto. Anzi, è senz’altro una questione di rilievo costituzionale. Ma la soluzione approntata nel Dpcm è piuttosto sconfortante. In particolare, circa le attività commerciali, sarà esentato dal green pass il commercio al dettaglio dei prodotti alimentari, delle bevande, dei surgelati, dei articoli igienico-sanitari (vasche da bagno, docce, etc.), degli animali domestici e relativi alimenti, del carburante per autotrazione, dei medicinali, degli articoli medicali e ortopedici, del materiale per ottica, del combustile per uso domestico e riscaldamento. Nessuna esenzione per i servizi postali o bancari; mentre per i servizi pubblici l’esenzione riguarda – peraltro soltanto per specifiche attività ed esigenze – le strutture sanitarie, socio-sanitarie, e veterinarie, gli uffici delle forze di polizia e delle polizie locali, gli uffici giudiziari e i servizi socio-sanitari.
Ma, come qualunque lettore potrà facilmente comprendere, non saranno esentate molte altre attività che servono per vivere dignitosamente. A partire dal ritiro della pensione, sino all’acquisto dei prodotti – diversi dal cibo e dalle bibite – che sono quotidianamente indispensabili per ogni persona che non intenda ridursi allo stato di un sopravvissuto su un’isola deserta come Robinson Crusoe.
Insomma, il Dpcm non ha seguito una logica coerente con i principi costituzionali di pari dignità umana e sociale, di eguaglianza e di ragionevolezza. Ben diversamente, traspare una strategia meramente opportunistica, quella della massima riduzione delle esenzioni in modo da indurre, mediante un ritaglio arbitrariamente restrittivo, al possesso del green pass e possibilmente alla vaccinazione. Strategia che finirà, così, per accrescere le fratture tra favorevoli e contrari al green pass, e, soprattutto esacerberà l’opposizione di chi si oppone alla vaccinazione. Insomma, piuttosto che una “dolce spinta”, una vera e propria eterogenesi dei fini.
Più in generale, a due anni dalla prima dichiarazione di emergenza nazionale, siamo tornati allo stesso punto, quasi che l’esperienza avesse insegnato ben poco. A partire dal succedersi incontrollato di decreti-legge che si affastellano e si sovrappongono settimana dopo settimana, sino alle regole complicate e differenziate che dovrebbero “disciplinare” l’assolvimento delle attività scolastiche.
Chiunque – delle centinaia di migliaia di cittadini – sia stato ultimamente coinvolto dal contagio, è entrato, nello stesso tempo, nel girone “dantesco” dei decreti-legge, delle ordinanze e delle circolari adottate dalle più varie autorità. Test rapidi e molecolari, sistemi di raccolta e trasmissione dei dati, certificazioni di positivizzazione e di avvenuta guarigione, scadenza e rinnovo del green pass, isolamenti e contratti stretti: una corsa ad ostacoli in cui, spesso, ci salva solo la buona volontà di qualcuno e lo spirito di adattamento – e di sacrificio – di tanti.
Per non parlare delle prassi applicative, inevitabilmente diverse da Regione a Regione, da Comune a Comune, da un’autorità sanitaria locale ad un’altra. Su questo fronte, in definitiva, ben poco si è fatto per mettere ordine nei rapporti tra lo Stato e le autonomie. E le responsabilità politiche sono così frantumate da apparire evanescenti.
Tra l’altro, i cittadini, che spesso sono dotati di maggior buon senso di quanto si creda nelle alte sfere, si domandano perché si intendano modificare non soltanto i metodi di diffusione dei dati relativi al Covid, ma anche gli stessi indicatori. Delle due l’una: o quanto fatto sinora è sbagliato, oppure si sta tentando di plasmare i dati a seconda delle convenienze del momento. In ogni caso, si finisce per accrescere la confusione e ad alimentare la sfiducia.
Per non parlare delle incertezze derivanti dalle pronunce giurisdizionali, dai Tar al Consiglio di Stato. E del fatto che alcuni slanci autonomistici non sono oggetto di impugnativa governativa – come, per quanto sembra, circa il passaggio dello stretto di Messina –, mentre altri, come quello dell’Emilia-Romagna sulla validità dei test casalinghi, ne risultano immuni.
La pandemia, insomma, è affondata come un coltello nel burro delle nostre istituzioni. Siamo a Caporetto? E come arrivare a Vittorio Veneto? Per il momento, non concordiamo con chi recentemente ha criticato soltanto coloro che hanno scritto e continuano a scrivere le tante “regole sregolate” del Covid, oppure coloro che non controllano a sufficienza i procedimenti di redazione delle norme. Essi, per lo più, eseguono gli ordini che ricevono, e forse cercano anche di ridurre i danni. Non basta allora un semplice maquillage. Bisogna partire dalla testa. Occorre una vera ripartenza del Paese.
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