Caro direttore,
sono più d’una le cose che non paiono tornare fino in fondo nel “progress narrativo” della crisi del governo Draghi. I premier simbolo della Seconda Repubblica – Silvio Berlusconi e Romano Prodi – hanno conosciuto entrambi la sfiducia parlamentare (stessa sorte è toccata a Giuseppe Conte, per molti versi il primo premier della Terza). Massimo D’Alema e Matteo Renzi hanno gettato la spugna dopo due nette sconfitte elettorali. L’ultimo Berlusconi si è arreso dopo essere stato sfiduciato prima dall’Europa e poi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nulla di tutto questo è toccato a Mario Draghi.
Il decreto Aiuti è stato approvato con netta maggioranza numerica da entrambi i rami del Parlamento, mentre l’Europa e i mercati hanno espresso immediata preoccupazione per l’annuncio di abbandono da parte del presidente del Consiglio. E, non da ultimo, il presidente Sergio Mattarella ha immediatamente respinto le dimissioni decise dal premier. Queste, peraltro, sono state presentate anzitutto ai suoi ministri (alcuni dei quali, curiosamente, ieri si sono sentiti in dovere di confermare che l’intero gabinetto è da considerarsi dimissionario).
Nel merito politico l’analisi non è molto più agevole: sempre ammesso che sia lecito ragionare lungo questa dimensione nel caso della “maggioranza istituzionale” che ha fin qui sostenuto Draghi. A rigore, l’astensione (comunque diversa da un voto contrario) annunciata dal residuo M5s “doc” guidato da Conte, è sembrata appartenere alla fisiologia politica: a maggior ragione laddove – tecnicamente – non ha provocato la caduta parlamentare del governo. Il passo ha evidentemente disturbato Draghi, ma non è politicamente “scandaloso” che a pochi mesi dal voto un partito abbia voluto marcare la propria linea “non approvando” un provvedimento di un governo di larga coalizione. E non sembrano cervellotiche neppure le ragioni addotte – o fatte filtrare – da Conte.
La questione dell’inceneritore di Roma può sembrare strumentale, ma in fondo non lo è. Non lo è nel merito della politica ambientale (cavallo di battaglia dei grillini ortodossi); non lo è riguardo l’eterna emergenza (anzitutto finanziaria) di “Roma Capitale”; non lo neppure sul terreno più strettamente partitico, laddove sotto pressione al Campidoglio non c’è più Virginia Raggi, ma l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri.
Ma nell’inquietudine pre-elettorale di Conte (fra l’altro dimezzato da una scissione che l’ex premier non avrebbe tutti i torti ad attribuire in parte agli sviluppi della leadership formalmente istituzionale di Draghi) si scorge più di un tema che non pare riducibile alla “pugnalata alle spalle” lamentata dal premier. Anzi: l’astensione M5s è sembrata dar corpo – per la prima volta da molti mesi – a tensioni e insoddisfazioni crescenti nel Paese, tutt’altro che confinabili nei settori “antagonisti” della politica e della società.
Detto più brutalmente: Conte – ma non diversamente dagli altri leader – ha certamente in mano sondaggi in cui porzioni più vaste e trasversali dell’elettorato manifestano forti preoccupazioni sul presente e sul futuro prossimo del sistema-Paese.
È noto che la “maggioranza silenziosa” degli italiani è scettica o contraria alla gestione Nato del conflitto russo-ucraino, rispetto al quale l’Italia è risultata appiattita sul bellicismo Usa (a differenza di Francia e Germania, più problematiche: la prima nella fase iniziale della crisi, la seconda negli ultimi giorni). E l’analisi economica dell’impasse geopolitica continua ad essere assai più elementare e trasparente presso l’opinione pubblica che nella comunicazione di Palazzo Chigi. L’inflazione è un fenomeno molto grave, in corso da molti mesi, ed stato accentuato in misura decisiva dalla guerra. E il governo italiano – da solo o assieme agli altri esecutivi Ue – è parso sempre più a rimorchio degli eventi, senza strategia reattiva, se non palliativa. Questa volta non sembrano d’altronde esserci “casalinate” mediatiche dietro la fronte aggrottata di Conte: che – a differenza di Luigi Di Maio – sa di continuare a rappresentare almeno una parte di un’Italia che già nel 2018 era molto scontenta di sé e degli anni del governo tecnico di Mario Monti e quindi dei tre governi Pd susseguitisi.
È noto fin dal primo dei suoi 500 giorni a palazzo Chigi che Draghi non intende seguire le orme di Monti, peraltro di poco successo. Per questo appare di difficile lettura una prospettiva adombrata in numerosi commenti: che il premier abbia voluto “scrollarsi” di dosso M5s e “raggruppare” i partiti a lui leali e formare una “maggioranza Draghi” di fatto, tendenzialmente proiettata al successo elettorale nella primavera 2023. Sarebbe – sulla carta – una “operazione politica” coerente con una narrazione strutturale profonda: la frattura geopolitica provocata al massimo livello drammatico dalla guerra ucraina (l’Oriente russo-cinese contro l’Occidente euramericano) coinciderebbe con la “culture war” all’ultimo sangue fra le forze dell’ordine legittimista e le nuove forze populiste e sovraniste. Il centro simbolico della narrazione è l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e il processo parlamentare in corso a Washington contro Donald Trump (con obiettivo impeachment ed eliminazione dalla gara 2024 per la Casa Bianca) può rivelarsi un campo di battaglia più cruento e decisivo di quello ucraino.
La durezza della reazione di Draghi al “semi-assalto” di Conte può essere letta, almeno in parte, sotto questa angolatura più ampia e profonda. Il premier italiano in carica è il più “bideniano” dei leader europei, mentre Conte è stato il premier italiano che avrebbe autorizzato personalmente la controversa missione militare russa a Roma durante il primo lockdown-Covid; e – ancor prima – il premier trasformista di un “ribaltone” benedetto da un famoso tweet di Trump (senza dimenticare i sospetti di forti simpatie filocinesi che hanno sempre circondato M5s, ma anche i vertici Pd o Leu sotto il Conte 2).
C’è quindi dell’altro – magari “molto altro” o “soprattutto altro” – dietro la crisi Draghi-Conte? L’avvicinarsi di una svolta in Ucraina rende più prossima anche la scelta del nuovo segretario generale della Nato: l’ex premier norvegese Jens Stoltenberg è infatti “in prorogatio”. E non appena la guerra da “calda” diventerà “fredda” (con un’Ucraina prevedibilmente attraversata da una linea di tregua come da settant’anni le due Coree) la Nato dovrà essere completamente riorganizzata, e sembra destinata a crescere enormemente di peso rispetto a strutture sovranazionali “novecentesche” come l’Onu (oggi quasi paralizzata) e la stessa Ue, molto indebolita.
È nella Nato che sono entrate Finlandia e Svezia e potrebbero perfino essere agganciati Paesi africani, del Medio Oriente, di Asia ed Oceania. In questo “new brave world” bipolare, una figura come Draghi appare immediatamente pronta all’uso per ruoli di rilievo. E quindi non più disponibile per il governo di un Paese periferico.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI