La memoria di una visita congiunta del presidente del Consiglio dei ministri e del ministro della Giustizia a un carcere della Repubblica si perde nella nebbia del bianco e nero televisivo e, molto probabilmente, è una prima assoluta se la si svincola da ricorrenze o festività particolari. Il pellegrinaggio laico di Draghi e della Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere è un omaggio doveroso alla più laica delle (i)dee. Quella della Giustizia, intesa non come dea acerba della verità assoluta (preilluministica sciagura), ma come tutrice matura della equità sociale e dell’equilibrio tra interessi diversi. 



Lo Stato, che legittimamente usa coercizione e violenza per ristabilire ordine e pace, con questo gesto simbolico e doveroso ribadisce che esso stesso non può mai superare il limite assoluto della dignità e del rispetto dell’uomo che, quando è avvinto in catene, regredisce a uno stato di primordiale vulnerabilità del quale tutti noi rispondiamo. Draghi e la Cartabia testimoniano con la loro presenza, in luogo pieno di storie che deviano e sbandano sul fondo sdrucciolevole della vita, che la cittadinanza esiste in perpetuo, soprattutto se si è in carcere, e che i diritti della persona sono più che amplificati quando sono compressi fisicamente i corpi e le anime che li incarnano. 



La scelta della Costituzione di puntare al reinserimento sociale come fine ultimo della detenzione è irreversibile perché figlia di una stagione brutale in cui il carcere ha rappresentato un mezzo di elisione del disagio sociale e di irrimediabile condanna non solo del detenuto, ma di tutti gli uomini considerati incapaci, una volta caduti, di rialzarsi e riscattarsi. Spesso questo programma costituzionale è messo in discussione e non solo da chi in quelle terre vive e subisce la pressione della violenza della camorra, della mafia e di chi è vittima della violenza che tende a sopraffare, ma anche di chi vede nel carcerato un solo detrito sociale da smaltire. 



La storia insegna che molto della capacità di una società di emanciparsi dalla violenza e dai delitti in generale e non risiede nella capacità di repressione, che pure ha un suo importante effetto quando la certezza della pena è garantita, ma molto di più si ottiene se si ha la capacità di offrire percorsi di vita alternativi e concreti con cui esprimere la propria umanità. Riempiere le carceri non svuota la società dalla violenza e rendere il carcere un luogo di sospensione dei diritti non garantisce maggiore forza allo Stato. Anzi, nel conflitto culturale che esiste tra la criminalità e lo Stato l’uso della violenza indiscriminata rafforza la prima a scapito del secondo perché legittima un arruolamento basato sul presupposto che non vi è rispetto per le vite sbagliate e che lo Stato non accoglie e accompagna ma mortifica e punisce senza rispetto per sé.  

Draghi e la Cartabia hanno reso un doveroso omaggio a questa idea e hanno consentito allo Stato di essere più forte andando nel luogo in cui la luce della ragione si è spenta per qualche ora. Portano fisicamente la loro presenza in quelle celle sancendo un impegno solenne a dare corpo alla Costituzione. Una matura e doverosa assunzione di responsabilità che carica questo Governo di un nuovo e importante onere. Riuscire nell’intento di una riforma del sistema carcerario è una necessaria precondizione per dare una svolta culturale al Paese per poter pretendere che chi sta vivendo l’esperienza della detenzione si assuma, potendo, l’onere di intraprendere percorsi davvero in grado di redimere ed emancipare se stesso e la propria vita. 

Se sia la volta buona o solo l’occasione per una foto ricordo lo capiremo a breve. Visti i protagonisti, notoriamente allergici ai selfie, qualche speranza è legittima.

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