La gravità della situazione che ha indotto Sergio Mattarella a seguire la strada del governo “di alto profilo” è tutta in quello che il capo dello Stato ha detto prima di comunicare il nome di Mario Draghi. Sta nell’appello ai partiti. Un appello da cui traspare la preoccupazione che nemmeno il nome “di alto profilo” possa farcela. L’ultima spiaggia, ha fatto capire ieri sera l’uomo del Colle, non è andare a votare: è che uno come Draghi sia esposto al rischio di non farcela. Uno che è stato direttore esecutivo della Banca mondiale, che ha in agenda tutti i numeri dei potenti del mondo, che ha salvato l’Italia aggirando il divieto comunitario di acquistare il suo debito, che da presidente della Banca centrale europea ha salvato pure l’euro promettendo di fare “whatever it takes” (tutto ciò che è necessario) per tenerlo in piedi, ora ha bisogno che Mattarella faccia appello a tutta la sua autorità perché venga sostenuto come capo del governo italiano.
La maggioranza che sosteneva il Conte 2 è finita ingloriosamente. Ma quei partiti dovranno trovare un collante per restare affiancati a sostenere Draghi. E rimettere in sesto i cocci non sarà facilissimo. Il Pd non sarà più il perno su cui facevano conto le cancellerie europee, che ora avranno Draghi come garante supremo. Nicola Zingaretti è finito imprigionato nel sostegno a ogni costo di Giuseppe Conte, si era identificato con l’avvocato del popolo e mai aveva speso il nome di Draghi come possibile alternativa, anzi aveva fatto balenare la prospettiva di non considerare sgradite le urne. Aveva Roberto Gualtieri come ministro dell’Economia, e potrebbe anche darsi che lo mantenga visto che Mattarella aveva fatto capire all’esploratore Roberto Fico che Gualtieri era un intoccabile: ma ora il vero ministro dell’Economia sarà seduto a Palazzo Chigi. Il Pd comunque non potrà dire di no a un presidente membro del partito.
Matteo Renzi gonfia il petto: si attribuirà il merito di avere finalmente trovato il salvatore della patria. Silvio Berlusconi ottiene il governo che aveva fatto capire di volere fin dal primo sorgere della crisi. La Lega darà probabilmente un appoggio esterno che le consente di rientrare nei giochi con un atteggiamento prudente e realistico: probabile che le varrà come credito quando, tra un anno, il Parlamento dovrà eleggere il nuovo capo dello Stato. La Meloni, come era prevedibile, in una nota ha già dichiarato che starà all’opposizione.
La vera incognita è il Movimento 5 stelle, ora davvero allo sbando e a rischio di dissoluzione visto che l’incarico a Draghi cancella in un colpo solo le leadership di Conte, del reggente Vito Crimi, dell’esploratore Fico e pure del buon Luigi Di Maio, colui che quando incontrò Draghi disse soddisfatto che gli aveva fatto “una buona impressione”. E trattandosi di un terzo dei parlamentari, non è un buon auspicio per il nuovo premier incaricato.
Draghi probabilmente chiuderà in fretta la fase delle consultazioni perché, come ha detto Mattarella, “i cittadini chiedono risposte urgenti”. Davanti a sé ha due strade, entrambe già percorse da illustri suoi predecessori come capi del governo “tecnici”. Nel 1993 Carlo Azeglio Ciampi fu premier tecnico di un governo politico, il primo nella storia repubblicana non guidato da un parlamentare. Nel 1995 Lamberto Dini e nel 2011 Mario Monti scelsero invece ministri tecnici “di alto profilo”. Entrambi, Dini e Monti, durarono un anno e dopo di loro ci furono le elezioni alle quali entrambi parteciparono con un loro sfortunato partito personale. Oggi sapremo quale strada imboccherà Draghi: chissà che non trovi una terza via.
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