Il governo Draghi ha concluso la sua parabola con la fuga dei gruppi parlamentari più consistenti, M5s, FI e Lega, dal voto di fiducia. Sarà meramente formale il passaggio di domani alla Camera dei deputati per comunicare le sue dimissioni.
Viene spontanea una domanda. Draghi non ha preteso un po’ troppo dai partiti politici che lo sostenevano?
L’idea che traspare dalle sue dichiarazioni e dai suoi comportamenti muove dalla premessa che il non voto dei M5s sul Dl Aiuti rappresentava una rottura della maggioranza di unità nazionale. Di qui le dimissioni, respinte dal Capo dello Stato, che gli ha chiesto un passaggio parlamentare proprio dopo l’approvazione di questo decreto.
Nel suo discorso dinanzi al Senato Draghi ha riproposto un voto di piena adesione alla maggioranza di unità nazionale da parte di tutti, ma le sue parole hanno in parte tradito questa aspirazione. Infatti, l’aspirazione era più che legittima, visto che il suo mandato si richiamava allo “spirito repubblicano” e in un momento in cui in Parlamento non si riusciva a formare una terza maggioranza su Giuseppe Conte.
Tuttavia, Draghi ha voluto sottolineare quello che avrebbe patito durante i mesi trascorsi a Palazzo Chigi e ha fatto riferimento a quello che soprattutto alcuni partiti avevano preteso nei passaggi parlamentari per determinate categorie, come i balneari e i tassisti, per non parlare delle discussioni sulla riforma del Csm e del tema del catasto, dietro il quale si celava una grande ambiguità sulla casa che lo stesso Draghi non è stato in grado di dissolvere del tutto. Però, non solo ha richiamato questi pochi momenti di discussione che sono tipici di ogni maggioranza e figuriamoci poi se si tratta di una maggioranza di unità nazionale, ma ne ha tratto velocemente la conclusione di un “progressivo sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese”.
Dopo questa premessa diventava oggettivamente difficile, pure alla luce delle prossime scadenze di governo soprattutto per l’attuazione del Pnrr, rispondere affermativamente alla domanda che poneva sul finire del suo discorso sulla disponibilità dei partiti e dei parlamentari di “ricostituire il patto di fiducia sincero e concreto”.
Se avesse voluto veramente continuare l’esperienza di un governo di unità nazionale, lui per primo, da presidente del Consiglio, avrebbe dovuto ignorare i momenti di conflitto ed esaltare i risultati positivi raggiunti e non pretendere dalla politica il silenzio assoluto. Solo gli stupidi possono pensare che Draghi abbia preteso i “pieni poteri”. Quello che invece sembra potersi addebitare a Draghi è la mancanza di pazienza verso la politica in quanto tale.
È chiaro che dal punto di vista caratteriale, per quanto navigato nelle cose del mondo, Draghi ha mostrato sin dall’inizio una certa insofferenza verso il gioco politico; i suoi compiti tecnici, anche se connessi a posizioni istituzionali elevate, non lo rendono incline verso le poco produttive “chiacchiere politiche” e questo lo ha reso più immediato e fatto apparire anche più fattivo di tutti i politici che lo hanno preceduto sulla sedia di Palazzo Chigi.
Tuttavia, la politica, come tutte le componenti della natura umana, non può tacere, quanto meno mai del tutto, e in una democrazia, soprattutto quando manca poco al voto popolare, appare inevitabile che il discorso politico sia fatto attraverso i distinguo dei partiti, in modo da attirare consenso e voti. Ciò non vuol dire che non si sarebbe potuto decidere insieme su molte altre questioni, che comunque saranno decise secondo il senso che a queste vicende italiane hanno impresso forze internazionali ed europee.
In Italia la discussione politica si era ridotta al bisbiglio, dopo l’appello del presidente Mattarella del 2 febbraio 2022 “a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Ma una simile situazione non poteva durare senza alcun disturbo sino al giorno prima delle elezioni del 2023.
Già con l’elezione del presidente della Repubblica la politica era ritornata e la stessa conferma di Mattarella al Quirinale avrebbe dovuto segnalare a Draghi che il suo permanere nella posizione di presidente del Consiglio non sarebbe stato più lo stesso.
Non solo, perciò, occorreva più pazienza verso il discorso politico, ma soprattutto sarebbe stato utile consentire alle aspettative dei partiti che sostenevano il governo di manifestarsi. Il compito di Draghi sarebbe stato invece quello di evitare che questi comportamenti potessero danneggiare l’agenda politica del governo almeno sino all’arrivo della prossima rata dei finanziamenti europei.
Se l’esperienza del governo Draghi si conclude qui, la vita professionale del presidente del Consiglio sicuramente continuerà; sedi europee e sedi internazionali lo possono accogliere da subito. Alla fine, il problema vero resta quello della politica italiana, perché, dopo il fallimento del 2 febbraio 2021, non è detto che ripartirà e soprattutto che sarà quanto meno dignitosa.
In democrazia votare è importante, ma soprattutto occorre un’offerta politica seria che consenta la scelta degli elettori in modo efficace su persone e programmi. Questa offerta, nel nostro Paese, sinora è mancata.
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