Chi si attendeva passi avanti dal Consiglio europeo di giovedì scorso è rimasto deluso. La Ue tuttalpiù ha cercato di leccarsi le ferite aperte dal flop dei vaccini e ha visto riproporsi polemiche e fratture come quella con il cancelliere austriaco Sebastian Kurz. Vienna è stata la prima a bloccare l’utilizzo di AstraZeneca innescando un bel po’ di confusione, ora chiede più dosi presentandosi come campione dei Paesi della Mitteleuropa che sono i più colpiti.
La terza ondata si è abbattuta in modo catastrofico dalla Polonia all’Ungheria passando per la Repubblica Ceca; il gruppo di Visegrad guidato da partiti sovranisti è quello che ha fatto peggio nella gestione della pandemia, non per questo è giusto che soffra più degli altri, sia chiaro, ma muoversi in ordine sparso non giova, tanto meno aiuta la facile propaganda.
Qualche dato può aiutare a capire se e fino a che punto sono fondate le polemiche che campeggiano sulla stampa. Da dicembre a oggi la’Ue ha prodotto sul suo territorio 165 milioni di dosi, la metà è stata esportata in Paesi terzi: 21 milioni nel Regno Unito, pari a due terzi delle dosi somministrate da Londra, provengono dallo stabilimento belga di AstraZeneca; 8 milioni in Israele dalla fabbrica di Pfizer-BioOnTech anch’essa in Belgio, il resto è andato a Hong Kong e parte ai Paesi in via di sviluppo in base al programma Covax. Se l’Ue avesse bloccato le esportazioni come hanno fatto gli Stati Uniti, oggi i problemi di approvvigionamento sarebbero molto minori. “La soluzione non è chiudere le frontiere, ma aumentare la produzione”, ha detto Mario Draghi, ed è questa la linea ufficiale dell’Ue che respinge il protezionismo, anche se sta pagando un prezzo salato perché l’aumento dell’offerta si dimostra più lento e difficile del previsto. Dunque, à la guerre comme à la guerre, e il liberoscambismo europeo finirà per essere in parte rivisto.
L’intervento di Draghi al Consiglio ha sorpreso molti perché l’ex banchiere centrale ha gettato la palla avanti sollecitando una revisione del Patto di stabilità e l’introduzione di eurobond per sostenere la ripresa proteggendosi dal rischio di nuovi choc finanziari. Sono due questioni di rilevanza strategica, ma per il prossimo futuro: oggi l’Europa è in piena emergenza e deve ancora mettere mano al programma Next Generation Eu. Eppure proprio da qui sorgono nuovi problemi. Nei discorsi dietro le quinte a Bruxelles sta emergendo la convinzione che le risorse stanziate lo scorso anno non sono sufficienti. Quando si è fatta la lista della spesa la scorsa estate, pur aspettandosi un peggioramento in autunno, prevaleva la convinzione che il 2021 sarebbe stato l’anno della ripresa. Invece è arrivato uno tsunami che ha travolto anche i Paesi che avevano meglio gestito il 2020, come la Germania. La ripresa si sposta in avanti, alla seconda metà dell’anno se la campagna vaccinale verrà davvero accelerata.
L’Ue per tirarsi fuori dalla pandemia e dalla recessione spera adesso negli Stati Uniti. Il Presidente americano, intervenuto da remoto al Consiglio europeo (la prima volta che accade) ha dimostrato comprensione, ma non ha preso nessun impegno preciso. Prima vuole arrivare al suo obiettivo (200 milioni di vaccini entro i primi 100 giorni del mandato), poi si vedrà. Il vero sostegno potrebbe venire invece dall’economia anche grazie al mega stanziamento da 1.900 miliardi di dollari che si aggiungono a quelli già approvati dal Congresso alla fine dello scorso anno. I Governi americani, tra Trump e Biden, hanno stanziato aiuti pari al 18% del prodotto lordo, l’Ue l’anno scorso si è fermata al 4,5% del suo Pil che può raddoppiare con il Recovery fund il quale però dovrebbe essere speso di qui al 2026. Insomma, si tratta di una cura omeopatica rispetto all’effetto choc americano.
È evidente che non può bastare, ma l’Ue non è in grado di aumentare le risorse a disposizione perché il suo bilancio è esiguo, dipende dai singoli Stati e siamo in presenza di laceranti divisioni tra Paesi e forti opposizioni interne come in Germania. Non resta che rivolgersi a un mercato dove la liquidità abbonda, con la garanzia finanziaria (e politica) dell’Ue; bisogna farlo ora che il costo del denaro è al minimo, prima che le banche centrali comincino a tirare il freno. Lo si è già deciso per una quota del Next Generation Eu, ma, come abbiamo visto, è troppo poco. È arrivato il momento di fare un nuovo, deciso passo avanti.
Draghi ne ha parlato con Macron e sono d’accordo che occorre andare ben oltre i 750 miliardi di euro previsti finora. “Serve una risposta più vigorosa”, ha detto il Presidente francese. “Il pericolo oggi è fare troppo poco, non fare troppo”, ha sottolineato il capo del Governo italiano. Si tratta intanto di alzare la palla visto che ben undici Paesi debbono ancora ratificare il Recovery fund, ma la lentezza dell’Ue si fa stridente rispetto alla velocità della crisi e la sua “parsimonia” europea diventa una colpa a confronto con la prodigalità americana.
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