Nella conferenza stampa di ieri, il primo ministro Draghi, incalzato da una domanda del corrispondente in Italia di Handelsblatt, è tornato sull’argomento “eurobond”. L’ex Presidente della Bce ha spiegato che l’euro, a differenza del dollaro, non può contare su un titolo di debito come il Treasury americano, che in Europa manca un mercato dei capitali comune e l’unione bancaria. Concentrandosi sul titolo di Stato europeo, Draghi ha poi spiegato che il presupposto è un bilancio federale e che la prospettiva è l’unione fiscale, con un tragitto lungo e difficile perché “i Paesi la pensano in maniera diversa”, ma sarebbe importante avere un impegno politico.
Il merito del Presidente del Consiglio è stato quello di mettere la questione del debito comune europeo nella giusta prospettiva rispetto a un dibattito che negli ultimi mesi si è concentrato spesso sui tecnicismi, inevitabilmente, e che ha evitato il cuore della questione che è politica. Gli eurobond hanno come presupposto un bilancio comune e una crescente unione fiscale e politica e non possono essere scissi da questo percorso. A Draghi va anche il merito di un sano realismo perché “i Paesi la pensano in maniera diversa” e, aggiungiamo noi, Germania e alleati “del nord” hanno sempre visto e tuttora vedono con enorme sospetto uno strumento con cui i loro frugali cittadini potrebbero essere nelle condizioni di pagare per le cicale mediterranee.
In questo percorso, lungo e difficile, verso un’unione fiscale occorre prestare attenzione ai passi intermedi e poi a come procede la costruzione. L’attenzione è doverosa perché negli ultimi dodici mesi l’Europa non ha dato particolare prova di coesione politica con la chiusura unilaterale delle frontiere, facendo venire meno uno dei pochi pilastri veri della costruzione europea, e i blocchi alle esportazioni di forniture mediche visti a marzo 2020. In questi stessi mesi si rende anche evidente la grande diversità di vedute tra Paesi membri in termini di politica estera.
In questo senso lo strumento degli eurobond può essere valutato solo nell’ottica di Draghi e con prudenza perché altrimenti si rischierebbe di “appiccicare” alla costruzione uno strumento per cui non è pronta e che può essere varato solo tra enormi diffidenze e in un processo che rifletterebbe il cambiamento di pesi tra Paesi membri che si è prodotto negli ultimi 30 anni e che non è affatto favorevole all’Italia.
La questione è per quale motivo e a quali condiziono i tedeschi, che sono certamente diffidenti, potrebbero acconsentire a questo strumento. La migliore risposta che si potrebbe dare e ciò che tutelerebbe maggiormente l’Italia è un ritorno stabile alla crescita del Paese con tassi in linea o superiori a quelli della media europea. Questa sarebbe la migliore tutela rispetto alle diffidenze attuali che nel breve non possono essere superate che dalla fiducia nel presidente del Consiglio e in qualche garanzia che certamente verrebbe chiesta. Se durante il processo l’Italia fallisse nella crescita si aprirebbero enormi pressioni per rientrare che farebbero leva su uno strumento in più.
Ieri Draghi ci ha assicurato che il post pandemia è vicino e ha però riconosciuto che nel breve ci sarà un aumento della disoccupazione. Gli “investimenti” sono importanti, ma sarebbe ancora più importante creare le migliori condizioni per la “libera impresa”, soprattutto dopo quanto accaduto negli ultimi dodici mesi, senza la quale rimarrebbe solo l’intervento statale. Questo è fondamentale anche in ottica eurobond nella misura in cui è crescita che “non dipende da nessuno”.
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