È il giorno delle comunicazioni di Draghi in Senato, della probabile fiducia dopo sei giorni di crisi di governo mai formalmente aperta, e della domanda, paralizzante, che continua ad agitare giornali e politica: cosa farà il presidente del Consiglio.
In realtà, decifrare le intenzioni di Draghi è un esercizio tanto suggestivo quanto impossibile, forse costruito ad arte da palazzo Chigi. L’enigma-Draghi sarà sciolto soltanto quando il premier parlerà in Senato; i partiti attenderanno il discorso per capire quale posizione assumere quando toccherà ai capigruppo, o ai leader, fare le dichiarazioni di voto. A quel punto sarà Draghi ad avere l’ultima parola.
Ma la strana crisi non inganni. Primo. Ieri sera nei palazzi della politica si respirava un prudente, sensato ottimismo. Nessun clima da resa dei conti, tranne forse che nelle chat del M5s, che però non fanno più notizia.
Secondo. Andiamo a ritroso e cominciamo dalla giornata di ieri. “Determinato sulle cose da fare”, così Letta ha definito il capo del governo dopo averlo incontrato ieri mattina. Un appuntamento a palazzo Chigi che ha impresso una strana impronta alla giornata politica, perché ha indotto il centrodestra, che ha espresso “sconcerto”, a chiedere a sua volta di incontrare il premier, obbligandolo ad un giro di consultazioni sui generis, al termine delle quali è mancato solo il vis à vis Draghi-Conte.
Terzo. La pressione internazionale. Da Zelensky all’agenzia di rating Fitch, passando per Biden e von der Leyen, tutti all’estero vogliono che Draghi resti dov’è. E le parole di Letta – “se Draghi cade Mosca festeggia” – sembrano un epitaffio sulle aspirazioni di fuga del premier.
Quarto. Altro effetto ottico di questa strana crisi: non sono i partiti ad avere sfiduciato Draghi, è Draghi ad avere sfiduciato i partiti. Con esito spettacolare, ma contraddittorio: l’ex presidente della Bce ha rassegnato le dimissioni, respinte da Mattarella, nonostante abbia avuto in Senato un’ampia fiducia, a fronte di un voto non contrario dei 5 Stelle.
Corollario: Draghi molto probabilmente non si dimetterà perché non è più nelle condizioni di poterlo fare.
Quinto. Se oggi il governo andrà avanti, sarà senza Conte e i suoi grillini. È una certezza, a meno di colpi di testa dell’ultim’ora dell’ex avvocato del popolo. Lo rimpiazzerà Di Maio con i transfughi pentastellati governisti.
Sesto. Il governo non sarà più quello di prima. Draghi, indebolito dalla sua fuga in avanti, non sarà più il premier del mattarelliano governo unitario “senza formula politica”, ma il gestore di un esecutivo di fine legislatura.
Settimo. È emerso che il Pd, senza Conte e “campo largo”, non può permettersi di andare al voto, mentre il centrodestra di governo (FI e Lega), proprio grazie a Draghi, si è ricompattato, avanzando richieste probabilmente irricevibili da Draghi (le teste di Lamorgese e Speranza, governo senza M5s) o più compatibili con i suoi obiettivi (stralcio del documento contiano e testa di Conte) ma legittime, proprio per avere subìto la crisi, invece di averla provocata. Lega e FI chiedono ordinaria amministrazione, niente obiettivi etici, lettiani, divisivi, e aiuti agli italiani quando arriverà la crisi in autunno. In questo modo Salvini e Berlusconi avrebbero sei mesi, forse meno, per consolidare il patto del centrodestra “responsabile” in funzione anti-Meloni.
Ottavo punto: forse la giornata di oggi è davvero già scritta.
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