Cautela sulla situazione Covid, complementarietà delle due economie, e (forse) una finale degli europei spostata da Wembley a Roma. Ma soprattutto politiche migratorie. Affrontate con una marcia in più, all’insegna del realismo. Sono i principali temi emersi dall’incontro bilaterale tra Draghi e Angela Merkel che si è tenuto a Berlino in vista del Consiglio europeo del 24-25 giugno.



Il segno politico della conferenza stampa congiunta va senza dubbio cercato in quel rapporto con la Germania definito dal presidente del Consiglio italiano “profondo, duraturo e solido” e ispirato – ha rimarcato il premier – a europeismo e atlantismo. Ma è inutile nascondere che il tema migratorio divide ancora l’Europa in molteplici sfere di interessi che coincidono con le legittime scelte di politica estera dei singoli Stati.



Con Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia, abbiamo commentato le principali novità emerse nel bilaterale di ieri.

Innanzitutto la Merkel ha lodato le iniziative politiche intraprese dall’Italia per dare stabilità alla Libia. Poi, ha detto la cancelliera, “occorre iniziare ad agire dai Paesi di provenienza e su questa gestione siamo completamente d’accordo”.

Mi sembra un deciso cambio di passo. Vuol dire che noi abbiamo in primo luogo smesso di bussare in Europa con il cappello in mano chiedendo un’impossibile ridistribuzione di flussi migratori che i Paesi europei non vogliono e non possono concederci se non in condizioni eccezionalissime, tipo quelle in cui è caduta la Grecia dopo il default, ed in dosi sostanzialmente ininfluenti. E che l’Europa sta capendo che la pressione migratoria non può essere gestita solo con le politiche di accoglienza o con i salvataggi in mare. Occorre ricostruire una dimensione di politica estera nel Nord Africa e parzialmente nel Sahel.



È questa la “vicinanza di vedute sulla dimensione esterna” di cui ha parlato Draghi?

Sì, nel gergo europeo la chiamano la dimensione esterna delle politiche migratorie, ma in realtà è l’unica politica possibile per ridurre il fenomeno ed evitare che esso divenga ingestibile sul piano politico, sociale, umanitario e della sicurezza.

Per quanto riguarda l’Italia?

È la grande occasione per coniugare governo dei fenomeni migratori e stabilizzazione della Libia, due obiettivi per noi preziosissimi. Se il modello funzionasse, potrebbe essere esteso in altri Paesi del continente africano rafforzando le statualità deboli.

Draghi non ha citato solo Tunisia e Libia ma anche “Sahel, Mali, Etiopia, Eritrea”. Quali sono, se esistono, i presupposti di una “visione congiunta ma di mutuo beneficio”?

Il problema migratorio è divenuto di proporzioni ingestibili perché è stato lasciato troppo spazio di manovra a scafisti e trafficanti, chiudendo gli occhi su quello che avveniva prima della traversata del Mediterraneo. La guerra civile libica e l’instabilità nel Sahel hanno creato un imbuto che punta proprio verso il Mediterraneo centrale. Ed in cui avvengono violenze e violazioni dei diritti umani inenarrabili.

E cosa deve fare l’Italia?

L’Italia deve fare da apripista e costruire un nuovo patto con i Paesi del Nord Africa, basato in primo luogo sul ripristinare la legalità degli accessi ai confini dell’Europa e ispirato al principio di non usare la pressione migratoria come strumento di ricatto. Sono politiche che possono fare solo Paesi stabilizzati. 

“La Turchia ha tutti i diritti ad essere appoggiata”; “non possiamo andare avanti senza la sua cooperazione” ha detto la Merkel. Draghi ha concordato su questo punto. Scelta obbligata, quella di un approccio “contrattuale” con Ankara alla gestione dei flussi?

Il caso della Turchia è un approccio sui generis, difficilmente ripetibile. E che presenta comunque forti vulnerabilità e criticità ed espone l’Europa ad un ricatto costante. Ma va detta una cosa che si tende a dimenticare.

Quale?

Andrebbe ricordato, per correttezza, che il problema migratorio turco nasce dopo che l’Europa ha abbandonato Ankara nel conflitto siriano dopo aver appoggiato gli inizi delle ostilità. La nuova rotta migratoria balcanica è in qualche modo il frutto di quella stagione delle primavere arabe. Poi, una volta che una rotta è stata creata e dimostra di funzionare, i meccanismi di mercato fanno il resto.

In che senso?

Vuol dire che la collegano a tante altre rotte che si ramificano verso Paesi anche molto lontani di cui la Turchia diviene un terminale prima del grande salto verso l’Unione Europea.

Cosa implica per l’Italia avere a che fare con la Libia più che con la Turchia?

Da un lato ci sono i problemi di non avere un interlocutore statale forte con cui negoziare. Dall’altro però ci sono margini di manovra maggiori. Per noi la Libia non sono solo le questioni migratorie, ci sono molti altri interessi da bilanciare. Anche contrastando le tendenze centrifughe ed il ruolo degli attori esterni. Questo rende la questione migratoria libica di non facile soluzione.

Per quale motivo?

Perché toccando i suoi meccanismi, in assenza di uno Stato funzionale, si rischia di squilibrare altri assetti. Un gioco non semplice che possiamo tentare solo con il sostegno europeo. Una Libia stabilizzata, comunque, non avrà mai il peso della Turchia. Parliamo di due categorie geopolitiche differenti.  

(Federico Ferraù) 

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