“Molto utile”: così il leader della Lega Matteo Salvini ha definito il faccia a faccia con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Oggetto del colloquio la legge delega con la riforma fiscale e la revisione del catasto che è stata motivo di contrasto tra Governo e Carroccio. Salvini ha poi chiesto a Draghi di accelerare sulla riapertura delle attività culturali e sportive, una maggiore durata dei tamponi (da 48 a 72 ore, come previsto dagli altri Paesi europei) e l’estensione dell’utilizzo di tamponi rapidi, gratuiti o a basso costo.
Sono richieste giuste e legittime, ma per Antonio Pilati, saggista, esperto di media, ex commissario Agcom e Antitrust, il vero problema sta altrove. Da quando è arrivato Draghi in Italia c’è un nuovo ambiente politico e i partiti del centrodestra potrebbero non averlo ancora compreso.
Non sappiamo che cosa si siano detti Draghi e Salvini sul catasto. Secondo lei?
Sul catasto c’è poco o nessun margine. È una delle cose che ci chiede l’Europa.
“È una patrimoniale mascherata”, secondo la Lega; “nessuna patrimoniale”, ripete Draghi. Chi ha ragione?
Si può dire poco. La riforma va fatta entro il 2026, in 4 anni e mezzo cambiano il quadro politico e la situazione economica. La delega è aperta, non è fissato nessun criterio e indirizzo. E quindi tutto dipende da chi sarà al governo.
Questo vuoto non neutralizza la pericolosità della delega.
No, al contrario. Le leggi delega sono sempre pericolose: il parlamento mette nelle mani del governo uno strumento potente e gli resta, alla fine, solo il potere di emendare.
Giulio Tremonti ha detto che toccare il catasto è un “suicidio politico”. Non di Draghi, che fa il commissario europeo al Pnrr. Allora di chi?
Neppure del Pd, un partito che si batte per l’aumento delle tasse e quindi non può che essere contento. Il suicidio politico è di chi vuole meno tasse e se le ritrova aumentate. Nonché per la gestione dell’economia che ne sarà indebolita.
Draghi, invece?
Ottiene un successo, perché ha in mano la delega per fare la riforma del catasto e dimostra all’Europa di mantenere gli impegni. Dopodiché, su modalità e tempi, la partita è aperta.
Fare la riforma del catasto in tre mesi non è proprio semplicissimo.
Infatti, nell’ipotesi che Draghi diventi presidente della Repubblica, la patata bollente finirà nelle mani del suo successore a Palazzo Chigi.
Il no alla riforma del catasto ha riunito le due “Leghe”: quella di Salvini e quella pro-establishment di Giorgetti & governatori. Per quanto ancora?
La mia impressione è che l’esistenza della doppia Lega sia molto pompata dai giornali e dalla sinistra, che non amano Salvini. Fin dai tempi di Bossi nella Lega ci sono state sensibilità diverse. Ma tranne personaggi secondari che poi venivano espulsi, non ci sono mai state correnti interne alternative. Salvini marca l’identità, ma non è incompatibile con chi è attento alle esigenze di governo.
Eppure l’impressione che si ha dai giornali è che la tensione interna alla Lega sia in continua crescita.
Drammatizzare le discussioni in casa altrui è l’altra faccia delle politiche di demonizzazione che sono state il marchio di fabbrica del Pci e dei suoi successori, dai tempi di Craxi in avanti.
Nella Nadef c’è anche il ddl sull’autonomia differenziata. L’“ampolla 2.0” che Zaia, Fedriga e Fontana possono offrire al loro elettorato.
Draghi ha intelligenza politica. Nel momento in cui forza sul catasto, mette nel piatto una giuggiola per la Lega. Ma le leggi delega sono cambiali in bianco. Catasto e autonomia differenziata dipenderanno da chi quelle deleghe dovrà tradurre in atto.
“L’azione del governo non può seguire il calendario elettorale” ha detto Draghi, “perché deve seguire quello delle riforme del Pnrr”. Si parla di due Cdm a settimana. Vuol dire ricorso continuo alla fiducia in parlamento. È praticabile?
Rispondo con una domanda: ci sono alternative? È da febbraio, da quando, quasi divinizzato, Draghi è salito a Palazzo Chigi, che il coro dei giornali racconta quanto sia competente e come riesca a risolvere i problemi. Ai partiti viene lasciato uno spazio residuale in cui discutere piccole questioni. Tutto ciò, si dice, è un bene per l’Italia: si fanno le riforme, i partner Ue sono contenti e noi riacquistiamo peso politico. Questo è l’ambiente ideologico nel quale stiamo vivendo e non ha l’aria di mutare nei prossimi mesi, almeno fino a febbraio 2022.
È un quadro confortante. Si fa per dire, ovviamente.
Ci dice tre cose. La prima è che il lavoro del parlamento si inserisce in un quadro già definito. Il numero di sedute a settimana o i voti di fiducia diventeranno un dettaglio.
La seconda?
Se le cose stanno così, non si possono poi scrivere pensosi articoli di giornale sui guai dell’astensionismo. Se di fatto si dice agli italiani che i partiti non contano nulla perché c’è un nuovo Demiurgo che sistema le cose, prima o poi si chiederanno che senso ha andare a votare.
Ieri Stoltenberg ha cassato la difesa comune europea, ma Draghi insiste a difenderne la causa. Lo ha fatto anche ieri in Slovenia. Perché si è legato al carretto sbilenco della Francia?
La mia sensazione è che quella di Draghi sia una mossa tattica. La difesa comune Ue è solo una chiacchiera che non porterà a nulla, credo che questo Draghi lo sappia e lo sappiano anche gli americani. E pure i tedeschi. È una velleità di Macron, che negli ultimi tempi ha preso schiaffi ovunque e tenta di rifarsi.
Macron difende l’interesse nazionale francese.
E Draghi fa un esercizio vocale per dare l’impressione, in un mondo che sta cambiando e sta spostando il suo baricentro altrove, che l’Ue conta ancora qualcosa.
Dobbiamo prendere in considerazione anche un’altra ipotesi. Macron ha promesso di sostenere la leadership di Draghi nell’Europa post-Merkel, in cambio di una subordinazione strategica e industriale dell’Italia.
Immaginare assi preferenziali europei che prescindano dalla Germania secondo me non ha senso. La stessa Francia non può fare a meno dell’asse tedesco. Che noi così diventiamo più centrali in Europa non è ipotesi realistica: i pesi, nell’Unione, sono determinati dal Pil, dalla stabilità politica e dalla forza militare, per quanto relativa.
Quindi?
Il fatto di avere un premier che gode di molte lodi non è sufficiente a compensare quelle tre debolezze.
Qual è il terzo aspetto che voleva sottolineare?
Con l’arrivo di Draghi è diventato evidente che c’è un piano su cui le forze politiche non incidono e che è del tutto sottratto alla discussione politica: quello dell’azione di Draghi e dei suoi committenti europei.
Ce ne siamo accorti.
Ma ho l’impressione che non se ne siano accorti i leader del centrodestra. Hanno continuato a contendersi il primato di coalizione, un gioco che in questo ambiente politico ha poco significato. Conti qualcosa se sei una forza di centrodestra coesa e vali il 40%, non il 20.
È questa la ragione principale dei risultati deludenti del centrodestra alle comunali?
Sì. I prossimi mesi ci diranno se il centrodestra saprà muoversi nell’inedita situazione attuale in cui pesa così tanto il sistema delle richieste europee.
Che cosa serve per rispondere?
Un sentire unitario e proposte di sistema. Attaccare la Lamorgese, per capirci, non serve a nulla. Non perché manchino buone ragioni, ma perché tentativi così sono destinati ad essere respinti.
Come fa a dirlo?
Ormai la politica non la fanno più i partiti, la fanno le istituzioni, dalla presidenza del Consiglio alla Consob. Queste istituzioni erano il braccio esecutivo della politica, adesso il rapporto si è ribaltato e la politica è subalterna.
D’accordo. La sovranità appartiene all’establishment, che la esercita a suo piacimento. Non è un gioco pericoloso?
Certo. Infatti siamo fortemente a rischio, perché le istituzioni possono fare politica, ma non sono elette dai cittadini. I partiti devono elaborare una visione di sistema e mobilitare l’interesse della gente, per riprendere lo spazio che in democrazia è loro prerogativa. Altra via non c’è.
(Federico Ferraù)
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