“Erdogan? Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio”.



Così Mario Draghi è entrato a piedi uniti in una delle vicende più imbarazzanti della diplomazia europea, ovvero lo sgarbo del “sultano” di Ankara che, pochi giorni dopo aver denunciato la carta di Istanbul sui diritti alle donne, ha ricevuto, assieme al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, la Presidente Ursula von der Leyen, relegata su un sofà, mentre gli uomini si accomodavano sulle sedie. Senza che Michel, subissato dalle critiche, reagisse alla provocazione.



È senz’altro una novità che la replica più dura dal fronte europeo venga dal Premier italiano. Non si è sentita la voce di Angela Merkel, attenta a non turbare le relazioni con la Turchia, patria di milioni di emigrati nella Repubblica federale e controparte necessaria per evitare l’immigrazione di siriani, iracheni e di altri disperati a caccia di un futuro oltre Reno. Ha taciuto Emmanuel Macron, finora il più duro contro Erdogan, da sempre il più rigido nel rifiutare l’adesione di Ankara alla comunità di Bruxelles. Al contrario, l’Italia ha sempre brillato per i suoi silenzi cui non è certo estraneo il peso delle relazioni economiche: ancor oggi, dopo la cessione di buona parte della quota di Unicredit nella seconda banca turca, Yapi Kredit, l’Italia è ai primi posti nell’interscambio, forte di alcune presenza storiche, a partire dai rapporti storici tra la famiglia Tofas, la più ricca e influente, e la Fiat. Senza dimenticare che è sul Bosforo che nascono i pneumatici Pirelli per la Formula 1. Ancor più importante il legame speciale che unì Erdogan a Berlusconi, capace come sempre di unire relazioni diplomatiche e accordi commerciali non sempre cristallini.



Anche per questo lo strappo di Draghi, oggi ampiamente segnalato dalla stampa internazionale, ha fatto sensazione. Più ancora della furibonda reazione turca, formalmente giustificata perché Erdogan, uscito in qualche maniera vincente da elezioni che lasciano più di un dubbio, non è tecnicamente un “dittatore” nonostante la costante negazione della libertà di stampa (nessun Paese ha più giornalisti in galera) e di espressione, negata da sempre ai curdi.

La domanda è una sola: Draghi, che tutto sommato è un novizio in politica, ha commesso una grossa e involontaria gaffe? Oppure c’è del metodo in questa apparente follia? La sensazione è che sia buona la seconda. E non solo perché non si può parlare di dichiarazione “rubata” perché, al contrario, Draghi ha avuto tempo e modo per calibrare la risposta a una domanda ampiamente prevedibile nel contesto di una delle sue rare conferenze stampa.

Ma allora che cosa giustifica una sortita così forte, la seconda in pochi mesi dopo il veto all’export di vaccini alzato verso l’Australia? Si possono azzardare più risposte a seconda della prospettiva. Innanzitutto, non dimentichiamoci che Draghi era reduce dalla missione in Libia, la prima della sua presidenza. Una missione molto delicata, vuoi per l’importanza della Libia, la frontiera meridionale dell’Italia, per motivi storici, strategici e a fronte dell’emergenza migranti. Ma anche una polveriera che, per gli errori francesi e inglesi, e la debolezza della nostra azione politica negli ultimi anni, è passata sotto il controllo dei mercenari russi della divisione Wagner e di Ankara, tornata nello “scatolone di sabbia” 110 anni dopo esser stata cacciata dall’esercito italiano dell’era Giolitti. Una polveriera che può avere un ruolo chiave nei nuovi equilibri del Mediterraneo, a danno dell’Occidente, indebolito dall’uscita degli Usa nell’era Trump.

Il ritorno dell’influenza americana nell’area, uno degli obiettivi della presidenza Biden, coincide con l’interesse italiano a riacquisire una leadership nell’area riprendendo il filo diplomatico tessuto da Berlusconi. Di qui la sensazione che la missione di Draghi sia stata concepita nell’ambito di un rinnovato asse con Washington che è una delle chiavi di volta della carriera di Mario Draghi, ex Goldman Sachs, che ha potuto contare ai tempi della Bce sul rapporto privilegiato con la Fed e il ministro del Tesoro Tim Geithner, alleato prezioso per contenere la pressione dei falchi tedeschi.

Soprattutto, però, s’impone la sensazione che Draghi sia destinato, più per forza di cose che per reale intenzione, a coprire quel vuoto politico che già s’avverte in vista dell’uscita di scena di Angela Merkel, che nel prossimo autunno comincerà la sua uscita di scena dalla guida politica dell’Europa mentre Emmanuel Macron s’avvia a vivere un difficile anno elettorale. In quel contesto è quasi scontata la funzione vicaria di super Mario, che ha sulle spalle i galloni conquistati nella difesa dell’euro, per rappresentare l’Europa negli anni della ripartenza che si annunciano assai complicati sotto i cieli della rivalità tra i due Big e le incursioni delle spie del tardo/Putin.

Solo fantasie? La sensazione è che, dopo anni di disorientamento e di sudditanza nel quadro di Bruxelles vista come una maestrina severa piuttosto che come casa comune, l’Italia possa tornare a dire la sua.

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