Il mio amico Fabio li aveva visti l’ultima volta al Viridis negli anni ottanta, luogo di passaggio obbligato per i gruppi dark e punk dell’epoca. Poi era accaduto che la sua frequentazione della musica si fosse fatta sempre più rarefatta, non perché fosse cessato un amore ma perché a volte accade così nella vita: che certe strade divergano a poco a poco, senza che vi siano particolari ragioni. Così, stasera, il suo ritorno sotto il palco ha il sapore di qualcosa di speciale. Una miscela, capace di contenere sia l’entusiasmo del ragazzo di un tempo che la maturità disincantata che arriva insieme ai capelli grigi, e che sembra quasi trasformare la sua presenza in una sfida: ce la faranno i Dream Syndicate a produrre ancora qualcosa di vitale o rappresenteranno, anche per noi, l’ombra di un passato perduto? Cosa regge l’urto del tempo, ora che tutta la musica rock è già stata scritta?
Quando era all’apice del successo, la band di Steve Wynn era davvero la punta di diamante di quella nuova ondata musicale americana che qualche critico fantasioso aveva definito Paisley Underground. Insieme a loro, Bangles, Green On Red, Rain Parade, Thin White Rope, erano spuntati fuori come d’incanto, mescolando garage e psichedelia, punk e quelle radici musicali che qualcuno avrebbe poi chiamato “Americana”; e per molti di noi, ventenni come loro di quegli anni ottanta, erano diventati l’antidoto al pop plastificato e costruito sui sintetizzatori, che aveva contaminato anche la maggior parte della musica rock. I musicisti, a quei tempi come ai nostri, rifiutavano qualunque etichetta e classificazione, salvo riconoscere ad anni di distanza che quella fu davvero una delle scene musicali più spontanee ed interessanti. Ma adesso che alcuni di loro sono tornati, che cosa sono davvero in grado di fare?
I Dream Syndicate, in realtà, hanno già dimostrato che un ritorno sulle scene può non essere opera di pura nostalgia. Avviato nel 2012, ad esso sono seguiti due ottimi dischi. Il primo, How Did I Find Myself Here?, è del 2017 ed è di notevole fattura. Insieme a Steve Wynn, della formazione originale è rimasto solo il batterista Dennis Duck; al basso è arrivato Mark Walton e Jason Victor ha ben sostituito un Karl Precoda la cui chitarra appare comunque difficile da dimenticare; Chris Cacavas, poi, ex Green On Red, è il tastierista che tutti vorrebbero nella propria band. Ed è di questi giorni la pubblicazione di un nuovo album, These Times, seguito ancora da nuove date e nuovi luoghi dove suonare dal vivo, a dire che questi tempi, per il sindacato del sogno, sono appassionati e vitali come una volta.
E che Steve Wynn sia felice, lo si capisce fin dai primi istanti in cui lo vediamo salire sul palco, con un’espressione sorridente e compiaciuta che mostrerà sul volto per tutto il tempo. Un palco piccolo, quello del Circolo Magnolia, ma capace di far uscire così tanta energia che le onde sonore potrebbero provocare un maremoto sulle acque del vicino idroscalo di Milano. Perché il concerto si rivelerà una liberatoria e straordinaria cavalcata chitarristica, adrenalina pompata in infusione continua nelle nostre vene. Un wall of sound potente ed essenziale, sostenuto dal drumming preciso di Duck, dal basso poderoso di Walton, dal lavoro incessante alle tastiere di Cacavas ed attraversato come fendenti nella nebbia dalla chitarra di Wynn e da quella lisergica di Victor. Un tappeto sonoro su cui vengono deposti titoli che attraversano tutto il repertorio del gruppo. Ci sono brani dei nuovi dischi, suonati nella prima parte dello show – The Way In, Put Some Miles On, Black Light, Bullet Holes, Recovery Mode, tratti da These Times, e Filter Me Through You, Out Of My Head, Glide e How Did I Find Myself, dall’album precedente – ma c’è spazio anche per le canzoni che hanno reso celebre la band, che servono ad infiammare un pubblico già caldo nella seconda parte e nei bis finali. That’s What You Always Say, Definitely Clean e When You Smile sono tratti da The Days Of Wine And Roses, ma sono soprattutto due celebri brani di The Medicine Show, Burn, cantata da tutto il pubblico in coro e punteggiata da assoli al vetriolo di Victor e Merrittville, straziante viaggio lungo la desertica solitudine di ogni sogno americano infranto, a far volare il cuore di ogni spettatore.
I bis finali riservano la sorpresa di una versione di See That My Grave Is Kept Clean che si stenta a credere sia stata scritta nel 1929 da Blind Lemon Jefferson, tanto sembra una canzone dei nostri tempi rivisitata in chiave punk. E negli ultimi due brani, Steve fa uscire dal cappello a cilindro l’invito sul palco per l’amico Manuel Agnelli, che accompagnerà alle tastiere ed alla chitarra il gruppo per una splendida Boston, ancora da cantare tutti in coro, e la finale Tell Me When It’s Over. E’ così che ci si ritrova alla fine dello show, con la sensazione che Wynn e la sua band non abbiano mai smesso di suonare splendide canzoni, tanto i vecchi brani e quelli nuovi sono capaci di amalgamarsi tra di loro. E’ una dichiarazione d’intenti, in fondo, scritta anche nei versi della prima canzone suonata questa sera – The Way In – ma che si è trasformata in esperienza reale: “trying to reconcile the past with the present, which one fits and which doesn’t / And we can’t begin until we find a way in”.
“Sapete – dice Steve Wynn introducendo Bullet Holes – in questa canzone c’è un verso che ripete “It’ all right, it’s all all right. E’ così perché c’è sempre una luce da inseguire alla fine del tunnel”. “Potrebbe esserci un treno”, gli urla uno dal pubblico e lui ride, ma sa di essersi fatto perfettamente capire, perché è vero che va proprio tutto bene, anche dentro le ferite dell’esistenza. Sembra davvero impossibile resistere alla carica di positività che trasmette quest’uomo. In un’intervista, rilasciata a Paolo Vites e pubblicata su ilsussidiario.net lo scorso 29 aprile, il cantante viene definito come una delle persone più entusiaste, vitali ed umili dell’intera scena musicale, vera rarità per il tipo di ambiente ed è esattamente questa la sensazione che si prova quando lo si vede allontanarsi dal palco dopo che l’ultimo amplificatore è stato spento. Il mio amico Fabio, alla fine del concerto, è contento. Ci diamo appuntamento per un nuovo concerto tra una settimana, stesso posto e stessa ora, e prima di salutarmi abbraccia, felice, un altro amico, incontrato qui per caso dopo più di vent’anni. Ma non è certo il caso, ciò che ci fa incontrare lungo le strade di una musica che non abbiamo mai smesso di amare. E’ una compagnia, invece, un desiderio di felicità che ci fa dire che siamo accomunati dallo stesso destino. E che ci fa dire che per chi è in ricerca del bello e del vero c’è sempre qualcosa, alla fine, che regge all’urto del tempo.