Prendendo spunto dall’ultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, intitolato “Annientare” (edito da La Nave di Teseo) e riferito ad un futuro molto prossimo (2027), e osservando che “in tutto il lungo romanzo, quasi un compendio della condizione umana attuale, non c’è la minima memoria del Covid, tutti si comportano come prima”, Emanuele Trevi sul Corriere della Sera di lunedì 7 febbraio 2022 conclude dicendo: “credo che questa totale dimenticanza prefigurata da Houellebecq sarebbe la fine ideale della storia, e la vera libertà che dopo tutto quello che abbiamo passato possiamo almeno permetterci di sperare: che ci venga da un vaccino o da un miracolo”. E il titolo del pezzo sintetizza perfettamente, rafforzandola, l’idea veicolata da Trevi: “La vera libertà sarà scordarci del coronavirus”.



Siamo così passati dal fallito tentativo iniziale di dimenticare la presenza del virus facendo ricorso allo slogan “Andrà tutto bene”, alla speranza di obliare il grosso gravame che ci stiamo lasciando alle spalle grazie allo slogan “Sarà solo un’influenza”, per arrivare alla soluzione finale che “La vera libertà sarà scordarci del coronavirus”.



Se, come crede chi scrive, non è questa la prospettiva che interpreta il nostro oggi e che desideriamo per il domani che, auspicabilmente, aspetta noi e i nostri figli e nipoti, allora, approfittando di un attimo di tregua che il Sars-CoV-2 sembra concedere (tutti gli indicatori stanno dicendo che la diffusione del virus sta rallentando la sua corsa), dopo due anni di Covid possiamo fermarci un attimo, magari seduti con calma sulla riva di un fiume (ma non ad aspettare che prima o poi passi il cadavere del nostro nemico), e ragionare attorno a quello che ci è successo, cercando di mettere in fila un po’ di argomenti (che hanno a che fare con la sanità) e riflettendo su ciò che di essi conosciamo, o non conosciamo, o di cui con l’aiuto di qualche attività da fare potremmo arrivare a conoscere molto di ciò che oggi ancora non conosciamo.



Cominciamo da quello che sappiamo a proposito dei dati. Nonostante il profluvio di numeri da cui siamo stati (e ancora siamo giornalmente) sommersi, o forse proprio per questo, l’unica certezza oggi è che i dati sono incerti, incompleti, controversi, insicuri, discutibili: non passa mese senza che qualcuno alzi la mano per indicare che ai numeri dell’infezione mancherebbe qualcosa di rilevante. Intendiamoci bene, i grossi fenomeni si possono riconoscere abbastanza facilmente: le ondate diffusive, le differenze numeriche tra vaccinati, contagiati, ricoverati totali o più gravi (quelli in terapia intensiva), deceduti, e così via, ma a distanza di due anni dall’inizio ancora troppi sono i numeri che necessitano di essere precisati, completati, discussi, chiariti, a cominciare dalle definizioni di base. Bastano tre esempi per capire a cosa ci si sta esattamente riferendo.

Il primo. Proprio poche settimane fa si è aperta la discussione su quando un caso, ricoverato o deceduto, debba essere considerato come caso Covid: le regole, come noto, ci sono da tempo sia a livello internazionale che italiano (4 criteri: caso confermato di Covid-19; presenza di un quadro clinico e strumentale suggestivo di Covid-19; assenza di una chiara causa di morte diversa dal Covid-19; assenza di un periodo di recupero clinico completo tra la malattia e il decesso [Iss, Rapporto 49/2020, 8 giugno 2020]), ma se il dibattito si è aperto (e prescindendo da argomenti strumentali come le conseguenze in termini di classificazione a colori della propria regione a causa dell’aumento dell’occupazione di posti letto, di incremento tariffario per i ricoveri dovuti a Covid, …) qualche ragione ci deve essere: o le definizioni non sono ritenute sufficientemente chiare o condivisibili, o i comportamenti degli attori non sono omogenei, o qualcosa è cambiato nelle caratteristiche della pandemia, per cui si ritiene necessario rimettere mano alle stesse definizioni, o altre ragioni, sta di fatto che siamo ancora in presenza di incertezze sulla definizione di caso.

Il secondo. Sempre nelle scorse settimane, e in controtendenza con ciò che stava avvenendo nelle altre regioni, è emerso un improvviso aumento di casi in Sardegna. L’approfondimento del problema ha portato a individuare un difetto di segnalazione relativo ai mesi precedenti, in quanto venivano trasmessi solo i dati relativi ai soggetti positivi nei soli tamponi molecolari, “dimenticando” di trasmettere i positivi ai tamponi antigienici: il recupero di questi ultimi era all’origine dell’improvviso aumento di positivi.

Il terzo. La tempestività e la regolarità di trasmissione dei dati è stata spesso, e con argomenti condivisibili, messa sotto accusa da diversi osservatori: dati trasmessi con tempestività variabile o in maniera irregolare rendono difficile un’adeguata valutazione soprattutto degli andamenti temporali e dei confronti tra periodi diversi della pandemia, quando non addirittura possono dare luogo a contenziosi che raggiungono persino il livello legale.

Ha avuto molta eco mediatica, ad esempio, nei primi mesi del 2021 la polemica tra Iss e Regione Lombardia sull’invio dei dati dalla Regione all’Istituto, con pesanti accuse (in particolare di molti media) nei confronti dell’amministrazione regionale: la querelle è poi scomparsa dalle cronache soprattutto perché (e chi scrive ne è testimone diretto, avendo avuto l’opportunità di approfondirne i dettagli) la malpractice lamentata è risultata del tutto infondata. E la lista degli esempi potrebbe continuare a lungo.

Molti sono i contributi (riportati spesso anche sul Sussidiario) che hanno cercato di stimare il numero di decessi complessivamente attribuibili (in maniera diretta e indiretta) alla pandemia: diversi metodi e approcci sono stati utilizzati per identificare il numero di casi di decesso che sarebbero stati attesi qualora la pandemia non si fosse materializzata, e ancora grosse incertezze esistono su quanti possano essere sia i decessi direttamente ricollegabili al virus sia quelli relativi ad altri fenomeni correlati comunque alla pandemia (aumento o diminuzione di altre patologie, effetto sulla mortalità del ritardato accesso o addirittura della rinuncia alle cure, …).

Anche per i decessi, non è in discussione se vi sia stato un effetto importante dal punto di vista numerico del virus sulla mortalità, effetto che supera sicuramente i 100.000 casi anche nelle stime più prudenti: il problema è che manca la conoscenza di molti dettagli rilevanti, e soprattutto non abbiamo ancora notizia fondata a riguardo delle patologie (non solo il Covid) che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando i soggetti deceduti (dei quali, ad oggi, conosciamo solo età e sesso).

Il tema del ritardo/rinuncia alle cure è continuamente evocato da molti professionisti: l’ultima segnalazione riguarda la diminuzione dell’adesione agli screening oncologici, ma sul tema Il Sussidiario ha già ospitato diversi contributi.

La preoccupazione espressa dai professionisti è condivisibile e ci sono segnali che alcune attività sanitarie siano state ridotte o rallentate dalla necessità di far fronte all’emergenza prodotta dal virus: rimane però ancora da identificare l’impatto effettivo della riduzione/rallentamento di tali attività, sia in termini di dettaglio (quali esami, quali visite, quali procedimenti diagnostici, quali tipologie di ricoveri, quali quadri patologici, …) sia, soprattutto, in termini di esiti di decessi o di maggiore gravità delle patologie che a queste attività sono associate.

Alcuni prefigurano scenari bui nei prossimi anni per i pazienti interessati da questi ritardi o rinunce, e sarà pertanto necessario alzare il livello della nostra attenzione e della nostra capacità di intercettare per tempo almeno le situazioni più critiche.

Se le questioni relative ai dati che sarebbe utile avere a disposizione sono certamente determinanti (e le esemplificazioni presentate costituiscono solo un assaggio degli argomenti che sono sul tavolo), non meno rilevante è il tema dell’interpretazione che dei dati hanno fornito soprattutto i media.

Nonostante gli strumenti open access disponibili e facilmente utilizzabili anche da utenti poco (se non per niente) esperti (e ci si permetta di citarne almeno uno prodotto dagli epidemiologi, il cruscotto “Made”), se diamo retta ai commenti giornalistici o televisivi sembra che il virus si comporti come gran parte delle persone che lavorano: per 5 giorni alla settimana è piuttosto attivo, cioè si diffonde, poi si prende due giorni di pausa (domenica e lunedì, per la precisione).

Non si è ancora compreso a fondo da una parte che la pandemia ha un andamento ciclico, ripetitivo, su base settimanale che non dipende dalla diffusione del virus, ma da altri fattori (il numero di tamponi fatti, la tempestività della segnalazione dei casi, …) e, dall’altra, che per leggere e interpretare il suo andamento non serve guardare ogni giorno se il numero dei casi positivi aumenta o diminuisce, ma occorre avere uno sguardo più lungo e tenere in debito conto gli andamenti temporali.

Per superare questa inadeguata interpretazione dei dati giornalieri recentemente è stato suggerito di interromperne la comunicazione giorno per giorno, suggerimento nei confronti del quale, correttamente e tempestivamente, si è opposta tutta la comunità scientifica, perché i dati giornalieri sono assolutamente indispensabili per chi li sa usare.

(1-continua)

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