La cruenta reazione di Israele al massacro effettuato da Hamas lo scorso anno ha provocato in Occidente molte manifestazioni filopalestinesi, spesso definite antisemite. Non vi è dubbio che si sia trattato in molti casi di manifestazioni contro Israele, ma occorre sottolineare che finisce per essere ambiguo e strumentale etichettare come antisemita ogni disaccordo con le azioni dei Governi israeliani.



Dall’altra parte, anche la dizione “filopalestinese” è ambigua e c’è da sperare che queste manifestazioni non fossero in favore del massacro del 7 ottobre e dei suoi esecutori. Hamas, dopo aver conquistato nelle elezioni del 2006 la maggioranza nel Parlamento palestinese, nel 2007 ha cacciato con la forza dalla Striscia di Gaza l’altro partito palestinese, al Fatah. Quest’ultimo si è trovato quindi relegato nella sola Cisgiordania, alla guida di un’Autorità palestinese (Anp) ormai senza effettivo potere e in un territorio sempre più occupato con violenza dai coloni israeliani. La divisione della Palestina non è quindi solo geografica, Striscia di Gaza e Cisgiordania, ma anche politica e ideologica.



Hamas è un movimento sunnita fondamentalista, collegato alla Fratellanza Musulmana e come tale inviso a buona parte dei regimi dell’area, a partire da Egitto e Arabia Saudita. Il movimento ha trovato tuttavia l’appoggio del Qatar, data l’impronta fondamentalista dell’emirato, che ne ospita gli uffici politici: il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, risiedeva a Doha prima di essere ucciso a Teheran dagli israeliani. Dal Qatar sono arrivati forti finanziamenti ad Hamas, senza che ciò abbia suscitato eccessive reazioni da parte degli Stati Uniti e dell’Europa. Il Qatar è un grande esportatore di gas e un forte investitore in Europa; in Italia con investimenti in alberghi di lusso e a Milano con diversi miliardi nel settore immobiliare.



Hamas, come Hezbollah, è definito un’organizzazione terroristica, ma anche questo è un termine che andrebbe riconsiderato. Non vi è dubbio che Hamas compia atti di puro terrorismo, come ferocemente dimostrato lo scorso ottobre, ma è anche un partito che ha governato per quasi vent’anni la Striscia di Gaza. Similmente ad altri movimenti fondamentalisti, come l’Isis, ha come obiettivo la costituzione di Stati islamici, dove non vi è posto per chi non è musulmano. All’interno di questa visione, la vita dei “fedeli” può essere sacrificata per la causa, meritando così il titolo di “martiri”, ora attribuito da molti fondamentalisti a Yahya Sinwar. La vita degli “infedeli” è invece senza valore, come dimostra l’eccidio di civili israeliani del 7 ottobre.

Hamas ha come obiettivo la cancellazione di Israele, considerato un invasore di un territorio musulmano, prima ancora che palestinese, ma l’obiettivo sarebbe identico se al suo posto vi fosse uno Stato cristiano o di altra religione. Per Hamas, come per gli altri movimenti fondamentalisti islamici, si ripropone il problema del ripensamento di un modo di operare che dovrebbe prendere in considerazione una diversa interpretazione del Corano. Un compito che sembra molto difficile nel complesso e diviso mondo musulmano.

Israele sta vincendo la sua guerra nella Striscia di Gaza, ma ciò non significa di per sé la cancellazione del problema Hamas, malgrado l’eliminazione della sua dirigenza. Magari sotto un altro nome, vi sarà di nuovo qualche altra organizzazione che si porrà l’obiettivo di uno Stato islamico “dal mare al Giordano”. La distruzione di Gaza e le vittime civili provocate dall’intervento israeliano faciliteranno il compito. Per di più, non appare chiaro come Israele voglia gestire il dopoguerra a Gaza. O meglio, l’unica proposta chiara è quella dell’estrema destra confessionale, parte rilevante dell’attuale Governo, che propone un’espulsione totale dei palestinesi da Gaza e l’annessione della Striscia allo Stato di Israele. Insomma, anche qui uno slogan del tipo: uno Stato ebraico “dal Giordano al mare”.

Una strategia simile, peraltro, è già in atto in Cisgiordania con la costante espansione degli insediamenti ebrei, stimati attualmente a 279, che contano quasi 500mila abitanti. Non è quindi azzardato pensare che la formula “Due popoli, due Stati”, alla base della decisione nel 1947 dell’Onu che diede vita allo Stato di Israele, sia ormai pressoché irrealizzabile.

Così, la “Questione palestinese” viene riaperta in una situazione che riporta indietro di decenni e in condizioni altrettanto preoccupanti per la regione e per il mondo.

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