L’unico dato certo è quello che Bruno Vespa ha sottolineato in apertura: erano ben tredici anni che due leaders politici non si confrontavano in televisione. Allora furono Berlusconi e Prodi, ora Salvini e Renzi. Difficile però fare paragoni: allora eravamo in campagna elettorale, al dibattito tv era appesa la sorte delle elezioni politiche, e a scontrarsi erano i leaders degli schieramenti in campo. In questa occasione si sono trovati faccia a faccia due leaders non precisamente sulla cresta dell’onda: Salvini, leader del suo schieramento, ma appena estromesso dal governo, Renzi, che leader vorrebbe tornare a essere, ma ha appena operato una scissione, dando vita a una formazione politica accreditata di pochi punti percentuali.



Chi si attendeva colpi da KO è rimasto deluso. I fendenti sono stati assestati, ma nessuno tale da stendere al tappeto l’avversario. E non essendoci elezioni imminenti era difficile immaginare un finale diverso. Renzi è apparso più aggressivo, Salvini più sulla difensiva, impegnato a accreditare l’immagine di un politico tranquillo e moderato, a costo di dover incassare anche qualche colpo al di sotto della cintura. È arrivato a stuzzicare Renzi definendolo nervosetto, le punture di spillo sono state continue.



Punti di accordo fra i duellanti solo due: la speranza che Virginia Raggi si dimetta al più presto da sindaco di Roma e l’assicurazione che mai fra loro due vi potrà essere un’alleanza. Poi distanze, spesso siderali, e accuse reciproche. Quello di Renzi è stato un crescendo. Al leader leghista ha dato nell’ordine del vecchio arnese della politica (perché in campo dal 1993), dell’assenteista (per non aver partecipato ai vertici europei da ministro dell’Interno), della banderuola (per aver cambiato radicalmente idea sulla Padania, su Di Maio e sull’Europa) e, dulcis in fundo, del ladro e del bugiardo, per il caso Savoini, i rapporti con la Russia e i 49 milioni dei fondi pubblici alla Lega.



Salvini ha risposto un’ottava sotto, ma non ha mancato di dipingere l’avversario come uno sfasciacarrozze (per i partiti demoliti), un personaggio cinico (“che ha trovato il governo sotto un fungo”), e pure come un genio incompreso (visto, ha ironizzato, che nessuno ne riconosce i grandi meriti di uomo di governo).

Distanze siderali, si diceva, anche sui provvedimenti di governo: quota 100 (difesa da Salvini e osteggiata da Renzi), uso del contante e gestione dell’emergenza migratoria. Nulla che non si conoscesse, nessun colpo di teatro, come fu la promessa dell’abolizione dell’Ici che Berlusconi fece negli ultimi istanti del dibattito del 2006.

Viene da chiedersi perché i due abbiano accettato di confrontarsi nella “terza Camera” del nostro Parlamento, lo studio di “Porta a Porta”. Per Renzi forse la risposta è più semplice da trovare, e nasce dall’assoluta necessità di trovare una nuova legittimazione, dopo l’uscita dal Partito democratico e la nascita di Italia viva. Oggi è il leader della terza forza della coalizione. Prima di lui vengono Conte, Di Maio e Zingaretti. Incrociare le lame con il leader del centrodestra è un modo di mettersi in vetrina, specie alla vigilia di una Leopolda in cui l’ex sindaco di Firenze si gioca il tutto per tutto per far decollare la sua ultima creatura.

Anche Salvini aveva bisogno di pubblicità alla vigilia della manifestazione di sabato a Roma, vero banco di prova per la sua leadership nell’area moderata. L’impressione è che abbia cercato di scegliersi l’avversario, nella convinzione che offrire una vetrina a Renzi avrebbe nuociuto al fondatore di Italia viva, mostrandolo come aggressivo ed estremista, tale da allontanare i moderati, vero oggetto del desiderio di questa fase politica. Non a caso ha scelto un profilo estremamente basso.

Solo domani comprenderemo meglio chi avrà guadagnato e chi perso in immagine, chi abbia vinto e chi perso la scommessa. E magari scopriremo che i leaders smetteranno di aver paura di confrontarsi fra loro direttamente, tornando a accettare il rischio dei dibattiti televisivi, come accade in tutti i paesi democratici.