Philadelphia, Independence Hall, luogo in cui venne adottata la Dichiarazione di Indipendenza il 4 luglio del 1776, luogo dove vissero George Washington e John Adams. Oggi non è il 4 di luglio, e non c’e’ una Dichiarazione di Indipendenza da firmare e i nuovi inquilini son qui solo di passaggio. Oggi in questo luogo storico si sfidano due persone in cerca di consenso, due che vorrebbero diventare (o ri-diventare) Presidente degli Stati Uniti d’America. Un confronto diretto in cui ciascuno vuole convincere il Paese che solo lui/lei sa cosa e come fare per rianimare e risollevare una barcollante società americana in crisi di identità.
Presumibilmente sarà battaglia, forse sarà spettacolo, perché come dice il mio amico Jonathan tutta questa campagna presidenziale, a cominciare dalle National Conventions dei due partiti, è come un grande “commercial”, una grande produzione pubblicitaria. Tutto confezionato come uno spot televisivo senza niente dentro. Un commercial dove quel che manca è il prodotto, dove la grande assente è proprio la politica. Quantomeno la politica come l’abbiamo sempre intesa e auspicata.
Sapete come Harris e Trump si sono preparati a questo dibattito? I ben informati dicono che la Harris ha passato il suo tempo in una sorta di teatro di posa fronteggiata da un omone vestito come Trump che non faceva altro che simulare le più o meno violente “invasioni di campo e provocazioni possibili dell’ex Presidente. Trump invece si è sottoposto a un corso accelerato di “memoria” per aiutarsi a ricordare le cose buone (ne ha fatte) e seppellire le cose cattive (ne ha fatte anche di queste) della sua presidenza.
Com’è andata? Vittoria netta di Kamala Harris. Penso proprio che per gli “incerti”, il vero premio in palio di questo dibattito, non ci sia dubbio. Come molti osservatori avevano sottolineato la Harris doveva misurarsi con tre obiettivi: apparire “presidenziale”, cioè rispondere adeguatamente come immagine e come comportamento all’idea di Presidente che si ha in America; secondo, rendere ragione dei cambi di posizione che negli anni l’hanno vista “ballare” su temi come sanità, immigrazione, fracking; terzo, infastidire Trump, ma non l’audience, non tediarla, né irritarla. Lei, nel silenzio di Independence Hall (c’erano solo i duellanti e i due intervistatori, niente pubblico) ha tenuto in mano bellamente il bandolo della matassa senza che Trump riuscisse mai a metterla in difficoltà.
Trump da parte sua – apparso sottotono, quasi a disagio – è riuscito a stare due ore sul palco senza dire assolutamente niente se non che la controparte continuerà a portare il Paese alla rovina. Andando da subito fuori tema rispetto a quanto gli veniva chiesto, ha fatto capire immediatamente che la sua non sarebbe stata una serata indimenticabile e che ci avrebbe offerto la solita insipida minestra riscaldata di critica sommaria e grossolana del nemico, la “marxista” Harris, come l’ha definita a un certo punto. La Harris è stata molto scaltra nel non abboccare all’amo delle provocazioni verbali di Trump e, aggiungo io, è stata molto brava a non mettersi a ridere rispetto alle fesserie più plateali di Donald, come l’accusa rivolta agli immigrati di mangiare cani, gatti e canarini dei cittadini americani…
Economia, aborto, immigrazione… grandi temi, ma discussione di basso, bassissimo profilo, una performance praticamente soporifera tanto che la Harris è persino riuscita a far passare i suoi cambi di bandiera per evoluzione del pensiero senza colpo ferire. E a me è venuto un mezzo abbiocco. Mi sono ripreso solo agli statements finali, quando Trump, parlando della Harris, ha detto l’unica cosa sensata della serata. “Lei farà questo, lei farà quello …ma perché non l’ha già fatto visto che è Vicepresidente da tre anni e mezzo?” Un lampo di buon senso per poi ricadere immediatamente nella sua fiacca retorica concludendo il suo intervento e la serata etichettando la coppia Biden-Harris con un bel “il peggiore Presidente e la peggiore Vicepresidente nella storia del Paese”.
Pur continuando a non avere nessuna simpatia per la Harris non posso che dichiararla vincitrice di questa sfida. A ripensarci la sfida ha cominciato a vincerla ancor prima che si cominciasse a parlare, quando, salita sul palco, è andata diritta spedita a stringere la mano di un Trump che se avesse potuto si sarebbe girato dall’altra parte.
Spengo la TV mentre opinionisti e pensatori cercano di dare un verso a una serata che un verso non l’ha avuto. Ma appena spengo la TV arriva sul cellulare la breaking news che vale più di dieci dibattiti: Taylor Swift manda a dire ai suoi 283 milioni di followers che lei è tutta per Kamala.
Questo sì che è un colpo pubblicitario…
God Bless America!
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