Come tanti in questi giorni, sono andato al cinema a vedere l’attesissimo Dune – Parte Due, diretto dal grande regista Denis Villeneuve, che è riuscito a riadattare al grande schermo parte della saga di Frank Herbert pubblicata ormai decenni fa. In barba a quella vocina che sussurra a tutti noi che andare al cinema da soli – per giunta al pomeriggio – è “da sfigati”, a vedere la seconda parte di Dune ci sono tornato, perché la prima volta con degli amici non ero riuscito a godermelo in IMAX (fa tutta la differenza del mondo). Pur non avendo letto i romanzi, alcune cose mi hanno colpito e ne parlerò dando per scontato che il lettore abbia visto i film.



Numerosi i parallelismi con la storia ebraico-cristiana: Dune è la storia del popolo Fremen che vive nel deserto di Arrakis e deve essere liberato da un oppressore. È la storia di Paul Atreides (Timotheé Chalamet), il messia che questo popolo aspetta per essere liberato. La profezia, che Paul finirà per sfruttare per vendicare la morte del padre, è costruita artificialmente dalle Bene Gesserit con l’intento di perseguire i propri disegni di controllo e lady Jessica (Rebecca Ferguson), madre di Paul, è una di loro. Allo spettatore salta subito all’occhio che la religione è rappresentata in termini pessimistici, come strumento di controllo. Può non piacere, ma è legittimo: la religione viene usata e sempre verrà usata per fini a lei estranei.



Premesso ciò, a colpire è soprattutto come Paul rovesci il topos del salvatore per eccellenza: Gesù Cristo. Paul viene “battezzato” con un nuovo nome, muore e risorge. È oggetto di una profezia, eppure, diversamente da Gesù, non conosce sin da subito il proprio “compito”. E come potrebbe? La profezia è frutto di una delicata operazione di ingegneria religiosa. Non a caso si coglie subito un altro rovesciamento rispetto a Gesù: questi, da ebreo, viene in mezzo al proprio popolo, mentre Paul viene da un altro mondo. Il movente principale di Paul è la vendetta, l’esatto opposto del Vangelo. La liberazione che Paul e sua madre promettono ai Fremen è quella che forse voleva anche Giuda da Cristo, una liberazione fatta con mezzi politici, fatta con la violenza: una guerra santa, un paradiso sulla terra.



Da un certo punto in poi, Paul assume consapevolezza del fatto che la strada verso la vendetta è la stessa che porterà morte e distruzione ai Fremen, che lo allontanerà da Chani (Zendaya), unico personaggio che nutre per lui un amore “disinteressato”, che lo riporta alla verità di sé: tu sei uno straniero per questo deserto, ma non per me.

Inizialmente riluttante a fare uso per i propri scopi delle false profezie disseminate dalle Bene Gesserit, Paul finirà per cedere a quella che sembra proprio la tentazione del diavolo nel deserto, che offre a Gesù il potere su ogni cosa. Forse è troppo, ma potrebbe non essere una coincidenza che il film sia andato in distribuzione proprio durante la Quaresima. Il prossimo episodio però confermerà se davvero di tentazione si tratta o se piuttosto Paul non abbia bevuto così il proprio calice.

Lady Jessica è come Maria madre di un messia, ma anche questa immagine viene rovesciata. Neppure lei è una donna del popolo Fremen, mentre Maria è ebrea a tutti gli effetti. Se Gesù conosce sin da subito il proprio compito e Maria lo scopre poco a poco, Jessica conosce prima di lui il compito di Paul perché lei stessa glielo cuce addosso. Se Maria si commuove per il proprio popolo quando manca il vino adeguato ai festeggiamenti, Jessica è invece disposta a sfruttare la debolezza dei Fremen per compiere il disegno che ha su suo figlio.

La figura messianica rappresentata in Dune rovescia dunque tutta la semantica del topos classico che invece si vede ben più spesso nella letteratura e nel cinema. Non siamo davanti ad Harry Potter, cui vendetta e potere non interessano. Né davanti a sua madre Lily, che dà la vita per salvarlo, assicurandogli con questo suo sacrificio la protezione necessaria a sconfiggere Lord Voldemort. Harry è uno come tutti: ciò che gli permette di scampare alla morte, ciò che ha di speciale lo deve al sacrificio di sua madre e all’amore che nutre per i propri amici.

Non siamo neppure davanti ad Aragorn, un re destinato a riconquistare il trono che invece di occuparsi della propria ascesa al potere devia dal proprio cammino per salvare due piccoli amici senza alcuna utilità particolare, Merry e Pipino. Ancora Aragorn, incoronato, si inginocchia al cospetto degli umili hobbit. No, Paul Atreides pesta irato il piede perché l’Imperatore tarda a fare atto di sottomissione, zittisce i propri nemici urlando un terrificante silenzio! direttamente dentro le loro teste. Ancora una volta, Gesù fa un uso totalmente diverso della propria voce.

Molto si potrebbe ancora dire e forse non è un caso che Villeneuve abbia diretto anche Blade Runner 2049 (2017), il cui protagonista – in termini diversi – è ancora un messia sghembo, la cui esistenza finisce per essere brutalmente frustrata dalla scoperta di non essere davvero il prescelto.

La storia di Dune è quindi una “brutta” storia? Assolutamente no! Una storia può essere bella e può essere ben raccontata anche se dispiega una visione problematica delle cose e Dune questa storia la racconta benissimo. Se tutti questi riferimenti alla storia cristiana corrispondano alle intenzioni di Herbert non sono in grado di dirlo e tutto sommato importa poco: in ballo c’è una storia che è la storia dell’uomo. Dune racconta le storture del potere, racconta l’avidità dei potenti, racconta l’amore ferito tra un uomo e una donna. Racconta, a suo modo, dell’inesauribile attesa che da sempre abita il cuore umano e che può essere usata – da noi stessi e dagli altri – come strumento di oppressione o come strumento di liberazione. La scelta spetta a chi scrive le storie, ma soprattutto a chi vive la propria.

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