Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre Jessica hanno trovato rifugio tra le sabbie desertiche dei Fremen. Tra di loro c’è chi vede in Paul un messia, come insegnano le profezie, destinato a cambiare le sorti del loro popolo e dell’intera galassia. Ma è lo stesso Paul a dubitarne, schiacciato dal peso della responsabilità. Nel frattempo, il barone Harkonnen, affiancato dal giovane e ambizioso Feyd-Rautha, trama per conquistare lo spazio vitale dei Fremen e il controllo della Spezia.
Con Dune – Parte Due si torna, finalmente, a viaggiare attraverso la fantasia immaginifica e sontuosa di Denis Villeneuve. La sua fantascienza, d’autore, ci immerge nuovamente in un sogno visionario di quasi tre ore che incanta il bambino che c’è in noi. Ritroviamo tutto del primo episodio, compreso il fascino irresistibile dei suoi protagonisti. Chalamet le Président, l’esotica Zendaya e, sparsi nei travestimenti trasformisti, un gruppetto di mostri sacri, come Christopher Walken, Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling, Javier Bardem, felici e pimpanti di far parte di questo giocattolone filosofico che fa scuola.
Non è Star Wars, intendiamoci. Ma ci prova.
Lo spettacolo è assoluto, diviso tra il buio vomitevole del male (capitanato da uno Stellan adiposo e spregevole) e la luce sabbiosa del deserto, abitato da nativi, vittime sacrificali della brama di potere della simil umanità inumana dal pedigree spaziale.
Si trama, e si combatte, tra opposte meschinità, per possedere la Spezia, materia preziosa e indispensabile per il futuro. Chi la controlla, tutto controlla.
Si trama, e si combatte, tra ratti, acque luride e vermi giganti, il cui fascino animalesco sorprende a ogni loro apparire. Padroni mansueti della sabbia, voraci ma domabili dai Fremen, il popolo “selvaggio” che rifiuta coraggiosamente la colonizzazione.
Si trama, e si combatte, in attesa del Messia, che va accolto e riconosciuto. Si dice che sarà il buon Paul, come molti segni divinatori rivelano con evidenza. Ma lui cortesemente rifiuta, perché la salvezza porta con sé dolore, separazione e distruzione.
Tra i colori dell’immaginazione si fa strada nel film, e già nel libro di Frank Herbert, il dissennato e invitante modello delle guerre di civiltà, che oggi suona più che mai attuale, in un pianeta Terra devastato da guerre. Ogni scena evoca le storie della storia più o meno recente. La violenza, la caccia nel deserto, l’invasione della terra, le barbare torture, il genocidio, i rituali, la santificazione del leader, le trame per stroncarlo. Un equilibrio fragile e confondibile tra nazismo delirante e pacifismo che non trova pace.
Nel film i buoni e i cattivi sono patentati mentre tutto attorno, nella realtà, sembra si preferisca giocare al relativismo che tutto abilmente confonde in un circo di mortifera follia.
Dune è un libro, un film, uno spettacolo, un messaggio, un virtuoso esercizio di archetipi. È una saga che continua e continuerà. Come il fascino del cinema pittorico.
Complicato da una trama a tratti complessa, fagocitato dallo spettacolo che oscura l’emozione per le storie dei protagonisti, il Dune di Villeneuve è anche un trattato sociologico che svergogna le dinamiche di massa e le religioni, tra i più efficaci rimedi per l’ansia dei popoli.
Il Dune di Villeneuve è tutto questo ma, in ultima analisi, è soprattutto un momento di cinema che inizia e poi finisce, anche se non vorresti.
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