Per 6 italiani su 10 acquistare on line permette di risparmiare sugli acquisti. Ma non è solo questione di prezzo: grazie all’offerta sulla Rete, aumenta (per 2 italiani su 3) l’accesso a prodotti altrimenti reperibili con grande difficoltà. E per 8 consumatori su 10 l’e-commerce equivale ad una maggiore varietà di offerta.



Sono alcuni dei dati raccolti dallo studio Inflazione ed e commerce realizzato da The European House-Ambrosetti in collaborazione con Amazon su un panel di 1.600 interviste. Uno sforzo non indifferente per inquadrare in maniera scientifica un settore economico che, oltre a generare una filiera con un giro d’affari di 70 miliardi di euro l’anno, con  un impatto che, tra logistica, pagamenti e pubblicità digitale, coinvolge la bellezza di 783.821 imprese con 380mila dipendenti.



Ma la ricerca non si è concentrata sulla fotografia di un settore chiave per l’evoluzione della società italiana. L’obiettivo, infatti, è stato quello di misurare il grado di accettazione da parte dei consumatori del fenomeno che ha ormai avuto un ampio impatto socio-economico, coinvolgendo anche gli altri stakeholders: dai dipendenti, diretti ed indiretti, delle realtà commerciali, al territorio, compresi gli operatori tradizionali. Ci limitiamo in questa sede ad alcune riflessioni, rimandando alla lettura dello studio.

L’indagine dimostra che la percezione dell’e-commerce tra gli italiani è largamente positiva. La grande maggioranza dei consumatori ha ormai superato i pregiudizi iniziali: la paura di frodi, il rischio di furti o disguidi nelle spedizioni, il rispetto dei tempi di consegna e così via. Il fenomeno investe tutta la Penisola, ma con un particolare accento per le zone percepite più “povere” in termini di offerta. Vedi il Mezzogiorno o la provincia, dove è più difficile procurarsi le griffes. L’offerta on line in questo caso fa da calmiere del listino prezzi e, non meno importante, consente ai produttori di allargare il mercato.



Qual è l’impatto sull’inflazione? Rilevante nella percezione dei consumatori: si riducono i passaggi dal produttore al consumatore, crescono le dimensioni di scala. Tutto questo si traduce in un risparmio per il pubblico. In crescita, a mano a mano che l’offerta diventa più varia e raffinata (pensiamo alle azioni promozionali di Amazon) o invade nuovi settori: è in pieno boom il vintage, abbigliamento od accessori di seconda mano ad un prezzo scontato, ad esempio.

Non è difficile prevedere che, sulla base dell’accettazione sociale dei nuovi protagonisti del commercio, l’Italia sia ormai matura per un salto di qualità nella crescita della spesa basic, quella legata agli alimentari: crescono le vendite e-commerce così come la rete on line di altri protagonisti, magari espressione del commercio più tradizionale (vedi Esselunga). Questione di prezzo, ma anche fiducia nella qualità e nella varietà, ormai percepita come complementare rispetto all’offerta del retail tradizionale.

Ma fino a che punto la penetrazione delle vendite online ha impattato il commercio tradizionale? Ovvero, la morìa di negozi (100mila in meno) è o no la diretta conseguenza dell’espansione di Amazon e soci? Nel prezzo da pagare per l’espansione dell’online, dicono i critici, va inclusa la desertificazione delle città, dai centri storici alle periferie dormitorio. In realtà, l’accusa non poggia su basi solide. Anzi.

Secondo un recente studio Oliver Wyman, negli ultimi 10 anni il commercio al dettaglio (retail) ha continuato a creare occupazione in Europa. Quest’ultima è direttamente aumentata di 1,3 milioni di unità, di cui circa 300mila nell’e-commerce e 1 milione nel commercio fisico. Sempre secondo lo studio, le attività commerciali che hanno adottato un approccio multicanale (fisico e online) hanno dimostrato una maggiore resilienza e tasso di crescita rispetto a quelle che si limitano al commercio fisico.

Inoltre, dati del recente rapporto Ambrosetti-Netcomm di gennaio 2023 ci dicono che il moltiplicatore occupazionale della filiera dell’e-commerce e del digital retail è pari a 2,41: per ogni 100 unità di lavoro generate in modo diretto dalle attività dell’e-commerce e del digital retail, si attivano ulteriori 141 unità di lavoro.

L’e-commerce rappresenta l’11% delle vendite al dettaglio in Italia e studi dimostrano che venditori e clienti usano una varietà di canali quando vendono o comprano. In questo contesto online e offline non si contrappongono ma si complementano. Semmai, la concorrenza dell’online impone ai negozi, dai più piccoli ai supermercati tradizionali, di spostare la sfida sul terreno della qualità del servizio e del contatto umano. Il commercio, insomma, deve adeguarsi. Con le opportune contromisure. L’uso di Internet, ad esempio, non è per forza un’esclusiva dei Big. La Rete ha offerto spazio di crescita ad un numero incredibile di artigiani. Su Amazon vendono oltre 20mila piccole e medie imprese (Pmi) italiane che hanno raggiunto oltre 800 milioni di euro di vendite all’estero nel 2021.

Semmai, c’è spazio per reti locali ed iniziative diffuse sul territorio anche sul fronte dell’alimentare. E non è affatto detto che il rapporto tra grandi e piccoli debba per forza essere conflittuale. È un buon esempio di collaborazione tra venditori di commodities (i Big del web) e specialisti che possono trovare sbocchi sul mercato fino a ieri inimmaginabili.

La Rete, insomma, è un’opportunità, non un pericolo da esorcizzare come un mostro. Attenzione a chiedere aiuti o protezioni simil-balneari. Ma guai a buttare via il bambino con l’acqua sporca: non solo per i punti (o i decimali) risparmiati sul carrello della spesa, ma per l’effetto sulla crescita del Paese. Sviluppare l’e-commerce vuol dire aumentare la produttività del sistema, cosa che richiede professionalità adeguate, infrastrutture all’altezza ed un sistema in grado di tutelare i consumatori ed il rispetto della concorrenza. E ben venga il confronto con i commercianti in grado di sostenere la sfida.

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