Il panorama retail Usa continua a perdere pezzi. È di pochi giorni fa la notizia che Amazon ha annunciato la chiusura di molti dei suoi punti vendita fisici (una cinquantina di librerie e una decina di negozi 4-star negli Stati Uniti e nel Regno Unito), ponendo di fatto fine a uno dei suoi esperimenti nel retail fisico. La prima apertura risale infatti a Seattle nel 2015, quando il colosso dell’e-commerce aveva sperimentato una serie di idee nella vendita al dettaglio: dai minimarket senza cassieri sino al format 4-star, in cui vendeva solo giocattoli, articoli per la casa e altri beni con valutazioni elevate da parte dei clienti online. Ma questi concept innovativi non sono bastati a contrastare la marcia verso l’e-commerce che la stessa Amazon ha contribuito a sviluppare. Tanto che i ricavi provenienti dai negozi fisici della società rappresentavano solo il 3% del 137 miliardi totalizzati nell’ultimo trimestre fiscale, e riflettevano soprattutto la spesa di consumatori presso l’insegna Whole Foods.
Ma non è solo Amazon a chiudere. La crescita dell’e-commerce negli Usa ha falcidiato il retail tradizionale. Nel settore dell’elettronica hanno abbassato le saracinesche: Sharper Image, CompUsa, Circuit City e anche RadioShack ha ridotto ai minimi termini la propria presenza sul territorio, con 70 store e 425 dipendenti. Nel 2004 l’insegna vantava 7.400 negozi. A tutto ciò occorre aggiungere le 100 chiusure per i negozi della catena Macy’s, il fallimento di HGregg (220 stores). Per non parlare della bancarotta di catene dell’abbigliamento come: Aéropostale, Pacific Sunwear of California, Sports Authority, American Apparel. Una Caporetto del retail tradizionale – sia nel segmento dell’elettronica di consumo sia nell’abbigliamento – che non fa prevedere nulla di buono.
E qual è la causa di tutto questo? Una sola e unica: l’avanzata tumultuosa dell’e-commerce che sta spazzando via tutto e tutti. Un fenomeno che in Italia pare non interessi a nessuno. Anzi, continuiamo a sentire, da parte di tutti, lodi sperticate al nuovo sistema di distribuzione. L’assurdo è che anche la politica non capisce come e in che misura l’e-commerce può andare a incidere nel tessuto socio-economico del nostro Paese.
Un esempio è stata la cerimonia dell’inizio dei lavori del nuovo centro di distribuzione di Amazon a Passo Corese, nel Lazio, anni fa. Una struttura da 60mila metri quadri con 1.200 dipendenti. Al taglio del nastro erano presenti varie autorità fra cui l’allora ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, che così aveva espresso la sua soddisfazione: “Sono felice di essere qui perché c’è un investitore che ha deciso di venire in Italia e questo vuol dire avere fiducia nel nostro Paese e creare nuovi posti di lavoro”. Mentre il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti aveva parlato di “giornata importante” per tre motivi. Il primo, perché “un grande player mondiale torna a investire nel nostro territorio, grazie al fatto che la nostra Regione si conferma tra le prime per crescita”. Secondo motivo perché “abbiamo lavorato e fatto di tutto per essere una comunità unita per superare gli ostacoli e i problemi”. Ultimo motivo “perché dobbiamo continuare in un processo di rivitalizzazione del nostro territorio”.
Tutte cazzate. Ma lo sanno questi signori che per ogni posto in più nel settore dell’e-commerce, secondo una recente ricerca negli Usa, se ne perdono sei nel tradizionale e nell’indotto? Sto parlando dei titolari dei negozi, dei commessi che vi lavorano, degli agenti che trattano con loro, degli spedizionieri che trasportano la merce e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Un processo a cascata che coinvolge tutte le categorie che ruotano intorno alla distribuzione. Anche a quella cosiddetta moderna, che ormai moderna non lo è più… Quanto tempo ci vorrà perché Amazon e i suoi fratelli non inventino modalità di prenotazione e consegna in grado di soddisfare le esigenze delle nuove generazioni?
Non sto parlando di me, classe 1954, “vecchierel canuto e bianco” come dice il poeta. Alla nostra generazione e a quella prima di me, forse, piace ancora andare nei negozi, toccare le cose, parlare con i commessi, pagare in contanti (altro capitolo da approfondire). Sono i millennials quelli che mi fanno paura. Quelli che prima vanno nel negozio tradizionale a vedere e/o provare la merce e poi la comprano online. Quelli che chattano sui social e si confrontano su cosa, come e dove andare a comprare. Quelli che pagano con la carta di credito, salvo poi ritrovarsi in rosso, con l’impiegato della banca che ti chiama e ti fa il cazziatone.
“Non si ferma il vento con le mani”, mi diceva tempo fa Francesco Rivolta, direttore generale di Confcommercio in una intervista, a proposito dell’e-commerce. Vero, verissimo, ma qui non stiamo parlando di vento ma di un vero e proprio tsunami, un ciclone che rischia di travolgere tutto e tutti. Ma c’è anche chi, di fronte a tutto questo, fa spallucce: “l’incidenza nel food è ancora risibile”. Peccato che Amazon qualche anno fa si sia pappata con un sol boccone Whole Foods Market, il grande retailer americano di prodotti alimentari. La sua capitalizzazione sul mercato era di 10,8 miliardi di dollari. La società di Bezos l’ha pagata 13,5 miliardi di dollari. Ha eliminato un concorrente nel “fresco” e ha acquisito un database di acquirenti altospendenti.
A tutto questo occorre poi aggiungere la questione tasse, mai risolta, che Amazon paga solo in parte in Italia. Per non parlare poi di cosa diventerebbero le nostre città senza i negozi di prossimità. Dei “non luoghi” deserti e abbandonati. Piccole o grandi metropoli alla Blade Runner. Alla mercé di bande più o meno affidabili. Senza nemmeno un Harrison Ford che ci possa salvare.
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