Cassa integrazione, blocco dei licenziamenti, lavoro agile, congedi per i lavoratori, sussidi per dipendenti e autonomi: l’emergenza coronavirus ha creato una sorta di “bolla” sul mercato del lavoro, che oggi si trova come sospeso. Ma questo “fermo immagine”, legato al lockdown, non può durare a lungo, pena lasciare ferite profonde e lancinanti sulla carne viva dell’economia e dei lavoratori stessi. Ma anche in questa fase 2, ai suoi primi, incerti passi, al di là di una diffusa e nefasta difficoltà a far arrivare i sussidi a chi ne ha bisogno, tornano ad aleggiare slogan come “lavorare meno per lavorare tutti” o “lavorare meno a parità di salario”. Sono soluzioni ineludibili ed efficaci? Come si aiuta davvero il lavoro? Quanto cambierà il mercato del lavoro? L’Italia dovrà rivedere il suo sistema di tutele, compreso il Reddito di cittadinanza? Per rispondere a queste domande abbiamo parlato con Andrea Garnero, economista del lavoro presso il Direttorato per l’Occupazione e gli Affari sociali dell’Ocse.
L’emergenza coronavirus porterà a un drammatico aumento della disoccupazione e una crisi economica mai vista prima. Qual è la priorità? Evitare le chiusure delle imprese?
Se guardiamo i numeri legati alla mobilità delle persone, sia nei paesi che hanno introdotto misure molto strette, tipo l’Italia, ma anche in quelli che hanno emesso solo raccomandazioni, come la Svezia, la disoccupazione è aumentata quasi ovunque, e la correlazione più forte è proprio con la situazione sanitaria, cioè la disoccupazione è cresciuta di più dove il numero dei contagi era più elevato.
Questo cosa significa?
Siamo in presenza di una crisi diversa dalle precedenti: non nasce all’interno del sistema economico, è sanitaria, e quella è dunque la prima questione da risolvere. Sembra ovvio dirlo, ma al di là dell’insistenza sulla riapertura è importante capire come riaprire, affinché lavoratori e consumatori abbiano di nuovo fiducia per tornare a spendere. Avremmo anche potuto non chiudere i ristoranti, ma probabilmente la gente non sarebbe stata così contenta di entrarvi sapendo i rischi che si potevano correre.
Sta dicendo che in questa fase 2 contano di più i fondamentali sanitari che le riaperture?
È inutile cercare di correre se prima non si risolve la questione sanitaria, essenziale per il rilancio più che la riapertura stessa, che comunque resta la conditio sine qua non. Occorre però riaprire in sicurezza: investire di più, da un lato, sulla sicurezza nei posti di lavoro e nei trasporti, e dall’altro, adottare le famose “3T”: testare, tracciare, trattare. Non ci sono opzioni migliori per tenere aperto.
“Lavorare meno, lavorare tutti”: è uno slogan che può diventare realtà? A quali condizioni?
Lo slogan è tornato in auge in Italia, perché in Francia il dibattito è esattamente l’opposto: cambiare le regole, lavorando magari su più ore e su più giorni, per permettere turni meno densi e ridurre il contatto fisico. Il nodo dell’orario di lavoro esiste, oggi ancor più di ieri, ma occorre non ripetere slogan pre-crisi. È una tentazione, ma l’emergenza coronavirus chiede di ripensare l’organizzazione del lavoro con nuove soluzioni, nuove risposte, nuovi obiettivi.
Quali?
A livello micro, si può pensare al telelavoro, che comunque in Italia potrà coinvolgere non più del 30% della forza lavoro.
E per l’altro 70%?
Bisogna pensare una diversa organizzazione dei luoghi di lavoro, con strumenti di protezione personale e con orari di lavoro flessibili per evitare che tutti entrino in fabbrica o in ufficio alle 8 di mattina per poi uscire in massa alle 17. Sono soluzioni da inventare a livello di azienda e di territorio, perché non esiste una ricetta unica. Se l’obiettivo invece è che, diminuendo l’occupazione, solo lavorando tutti di meno facciamo posto a tutti, lo slogan, per quanto affascinante, non porta a questo risultato.
Perché?
Dietro questo slogan “lavorare meno per lavorare tutti” c’è un’interpretazione sbagliata del mercato del lavoro, immaginato come fosse una scatola chiusa, fatta di unità e di ore di lavoro, che vengono divise un po’ tra le persone, lavorando di più o di meno, o tra nativi e migranti, con il falso mito che siano questi ultimi a “rubare” i posti di lavoro, o tra vecchi e giovani, per cui si ricorre ai prepensionamenti illudendosi così di far entrare i giovani. Ma il mercato del lavoro non è una scatola chiusa, che si può dividere a volontà, bensì è un flusso continuo che si espande e si contrae e non è semplice regolarlo.
Smart working, turni spalmati su più ore o più giorni, orari flessibili di entrata e uscita da fabbriche e uffici: questa nuova organizzazione del lavoro dovrà essere accompagnata anche da nuove forme di tutela?
La prima tutela che oggi serve è la salute. Se ci si riferisce, poi, alle tutele giuridiche, in Italia sono stati vietati i licenziamenti dal 23 febbraio, eppure i dati amministrativi, e non quelli Istat che sono parziali e non sufficientemente granulari, per Veneto, Piemonte e Toscana mostrano una riduzione importante di posti di lavoro. In Veneto, per esempio, ne sono spariti in media 6mila a settimana nel periodo dal 23 febbraio al 20 aprile. Livelli peggiori della crisi del 2008.
Come si spiega questo fenomeno?
Non vengono rinnovati i contratti temporanei arrivati a termine e non vengono fatte le assunzioni che si potevano fare. Il diritto del lavoro è sì fondamentale, però non si deve pensare che la protezione passi tanto o non solo dal versante giuridico. La vera protezione è legata al fattore economico, allo stato di salute dell’economia. E lì l’Italia si è trovata impreparata, perché i sussidi di disoccupazione, che proprio noi siamo stati i primi a introdurre senza però mai svilupparli appieno, continuano a coprire poco. La copertura dei lavoratori vulnerabili è un problema da risolvere e introdurre l’articolo 18 non aiuterebbe. Piccoli passi avanti sono stati fatti, ma con questa crisi si è capito che ci sono dei buchi e anche molto grandi.
I più vulnerabili sono già stati colpiti, i più garantiti possono per ora beneficiare della Cig e del blocco dei licenziamenti, che avranno comunque effetti limitati nel tempo. Che politiche bisogna mettere in campo per prepararci quando si cominceranno ad avere effettive perdite di questi posti di lavoro?
Due sono gli obiettivi di politica economica. In primo luogo, proteggere il reddito delle persone per ragioni sociali, ma anche per ragioni economiche, salvaguardando la loro capacità di spesa e di domanda, che è ovviamente fondamentale per la ripresa. Dall’altro, assicurare la riallocazione dei lavoratori, facendo sì che le imprese più produttive e che possono lavorare riescano a trovare la manodopera di cui avranno bisogno, con gli effetti macroeconomici che ne conseguono. L’importante è non trattare lo stock dei disoccupati con un’unica politica: dietro ogni disoccupato ci sono storie e ragioni diverse. Servono dunque strumenti diversi, che possono essere economici, formativi, logistici. La buona politica attiva è prendersi carico della persona. E a farlo non può essere solo lo Stato, devono essere coinvolte tutte le parti sociali sul territorio.
L’Italia dovrà rivedere il Reddito di cittadinanza?
È uno strumento utile, perché tutti i paesi Ocse hanno strumenti per il reddito di ultima istanza, ma fin dall’inizio è stato disegnato male. Si è partiti da una cifra simbolo, i 780 euro, costruendovi intorno l’intero impianto, con il risultato che il Rdc è generoso con i single, insufficiente per le famiglie numerose. E poi è un ibrido mal riuscito, non si capisce bene cosa sia: è uno strumento contro la povertà o uno strumento di politica attiva? Ora con questa crisi si è scoperto che non aiuterà tutti quelli che dovrebbe aiutare e si sta pensando di introdurre un reddito di emergenza. Dopo la crisi, sarà opportuno ridisegnare il pacchetto complessivo delle politiche del lavoro: semplificarle per renderle più efficaci.
Partite Iva, autonomi, collaboratori, lavoratori a tempo determinato godevano già di meno tutele prima del coronavirus e probabilmente sono i più esposti alla crisi. Come aiutarli?
Già prima dell’emergenza coronavirus eravamo arrivati al numero più basso di lavoratori autonomi in Italia dalla fine degli anni Settanta. Un declino legato a forze strutturali – dalla globalizzazione alla grande distribuzione – ma questa crisi rischia di essere per loro ancora più pesante. L’obiettivo di fondo dovrebbe essere estendere le protezioni attualmente esistenti, il problema è che il calcolo di contributi e diritti è un po’ più complicato, perché tra evasione e difficoltà a quantificare il lavoro effettivo svolto non è semplice farlo. Per ora si è trovata una soluzione diretta, con una somma, i 600 euro, uguale per tutti, ma io credo che già ora si potrebbe, e i mezzi per farlo non mancano, legare il contributo alla perdita effettiva di reddito rispetto all’anno scorso. Ritengo che sia la soluzione più pragmatica. Nel lungo periodo, invece, bisogna capire se questo strumento potrà essere mantenuto, ma ridisegnato. Per le partite Iva è necessario un passaggio preliminare: verificare se sono vere partite Iva o meno, perché si evita il rischio di falsare la competizione sul mercato per imprese e altri lavoratori. Se sono vere partite Iva, devono avere strumenti, basati ovviamente sui contributi dei lavoratori autonomi stessi, che permettano di assicurarli in caso di shock economici.
(Marco Biscella)
(1 – continua)