Nella serata finale del festival di Cannes 1982 Steven Spielberg presentava la sua creatura cinematografica più audace, accolta dal pubblico in sala con plauso commosso e salutata dalla critica con meritati elogi, tanto che un ex “giovane turco” dei Cahiers du Cinema come Francois Truffaut gli inviò un telegramma di complimenti.



Quarant’anni son passarti e ancora la storia di E.T. l’Extra-terrestre, immaginata dal regista a partire da sue tristezze adolescenziali e sceneggiata con grande mestiere da Melissa Mathison, appassiona, diverte e commuove. Che poi è la formula vincente promossa da Charlie Chaplin agli albori del cinema – un misto ben calibrato di commedia e melodramma – qui riveduta e corretta. Il film di Spielberg, infatti, sa intrattenere con una messa in scena di prim’ordine (Oscar agli effetti speciali), emoziona senza scadere nelle melasse da soap opera, e fa pensare con leggerezza e ironia, senza fornire giudizi ideologizzati o definitivi. Intrattiene perché è visivamente straordinario, emoziona perché tocca con misura intelligente le corde del cuore, fa pensare perché cela un messaggio universale: servono gli occhi e il cuore di un bambino per comprendere e accettare gli altri (alieni, in questo caso, metafora di tutti i “diversi” in generale). 



Molti critici hanno individuato nelle figure di Spielberg e Lucas i principali responsabili della regressione alla favola spettacolare e al mito di facile lettura che il cinema di Hollywood ha conosciuto dopo la fase di rinnovamento innescata dalla rivoluzione estetica e poetica dei movimenti del cinema moderno europeo. La cosiddetta new Hollywood dei vari Scorsese, Cimino, Penn, Coppola, Allen e altri – che si adeguava alla modernità europea rivisitando i generi del classico con una nuova chiave estetica – ha sì dato corpo a un cinema dinamico, in parte sovversivo e contro-culturale, anti-mito e antieroico, fedele specchio della società americana dell’epoca (siamo tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta), ma anche costoso e di resa commerciale medio-bassa, quindi alla lunga insostenibile. Bisognava, dal punto di vista produttivo, tornare ai prodotti di massa. 



Risultato: le nuove produzioni si sono adeguate a offrire al pubblico quello che esso più si aspettava di vedere. Dai primi anni Ottanta in poi, chi andava al cinema ci andava non solo per assorbire una buona dose di ottimismo, come accadeva col classico all’epoca della grande depressione, ma per dimenticare il più possibile la propria ordinaria quotidianità e – soprattutto – pensare il meno possibile. Regressione che ha esaltato la parte infantile dello spettatore, sempre più bambino, sempre più indifferente a istanze critiche o sociali, sempre più desideroso di evasione e leggerezza. 

Tutti questi fattori, che dovevano essere elementi di debolezza di un film come l’extraterrestre di Spielberg, sono diventati paradossalmente la sua forza. Il regista, con il fondamentale apporto della sceneggiatrice (all’epoca moglie di Harrison Ford), ha dispiegato in E.T. gli elementi archetipici della favola nella migliore maniera e con le migliori intenzioni, mettendo le sue indubbie capacità visive al servizio di sentimenti profondi e autentici, per questa volta non solo votate allo spettacolo di pura scintillante superficie. Così E.T. è un film che narra una vicenda fantastica ed emblematica al tempo stesso, attraversato da un ottimismo entusiasta, con sullo sfondo una sorta di misticismo laico (lettura, però, sempre smentita dal regista), che riesce con diretta semplicità a toccare i tasti più profondi dell’animo umano. Quella che in altri contesti sarebbe certamente definita puerilità ammiccante allo spettatore, qui diventa innocenza, nel senso più puro e buono del termine. 

Da rimarcare inoltre la notevole maestria degli effetti visivi e speciali, per una volta perfettamente giustificati rispetto allo specifico narrativo del testo filmico. Molto del successo di E.T. è dovuto alla singolare simpatia che ispira il personaggio dell’extraterrestre, il pupazzo animato disegnato e costruito da Carlo Rambaldi, divenuto celeberrimo anche per via del merchandising indotto dal film. Il quale, anche per merito di questi effetti favolistici di forte emozione, è diventato uno dei maggiori successi commerciali dell’intera storia del cinema. 

Come l’estetica del post-moderno impone, anche Spielberg nel tessuto di questa sua riuscitissima avventura fantascientifica non lesina citazioni filmiche, sia popolari che dotte. La più evidente richiama il finale di Miracolo a Milano (De Sica, 1951), dove i poveri volano via sulle scope visti in controluce contro lo sfondo rilucente della luna piena; laddove in E.T. sono i ragazzi amici dell’alieno a volare magicamente con le loro biciclette. 

Un autorevole critico del The Guardian scrisse del film: “E.T. è un pezzo superlativo del cinema popolare, un sogno dell’infanzia, brillantemente orchestrato per coinvolgere non solo i bambini, ma chiunque sia in grado di ricordare di esserlo (stato)”. Affermazione che ci sentiamo di sottoscrivere forti del senno di poi, avendo conoscenza di come in questi quarant’anni la figura di E.T. sia diventata un must della cultura visiva popolare. 

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