Si parla oggi molto di valorizzazione e inclusione della diversità: un tema di importanza sociale e culturale rilevante che nel mondo del lavoro attiene alla formazione di una cultura davvero orientata al riconoscimento e valorizzazione delle identità e dell'”altro da sé” con benefici riflessi sulla percezione dell’ambiente di lavoro, sulle possibilità di carriera; vincente anche in termini di business per le aziende, attrattività per i talenti, innovazione. Un cambiamento che il nostro Paese sta con qualche ritardo affrontando, seppur nella consapevolezza che ci sia ancora molto da fare.



Per approfondire quale siano le condizioni di questo progresso, abbiamo coinvolto la Dott.ssa Lucilla Bottecchia Psicoterapeuta e Partner di Wise Growth – società di consulenza che opera da più di dieci anni nello sviluppo e promozione di politiche di Diversity & Inclusion – che ci ricorda come consapevolezza e un più elevato senso del rispetto siano alla base di una cultura dell’inclusione matura, anche in azienda.



Cosa intendiamo con “Diversity & Inclusion”?

Oggi il termine “Diversity&Inclusion” è usato molto frequentemente e ha assunto un ampio ventaglio di significati e connotazioni non sempre pertinenti. Per Diversity & Inclusion si intende una promozione e una gestione della cultura aziendale orientata alla consapevolezza e al riconoscimento delle differenze e sull’opportunità dell’inclusione per massimizzare il potenziale presente in ognuno, ciò al fine di garantire non solo un miglior clima e una migliore reputazione, ma anche raggiungere migliori obiettivi di business attraverso una maggiore creatività e spinta innovativa, un minor turn over e una maggior attrattività per i talenti. Sul tema dell’inclusione in azienda nel nostro Paese, pur essendo sempre più numerosi i casi virtuosi da citare, ancora molta è la strada da percorrere.



Cos’è “diversità” oggi in azienda?

Oggi si parla di “DE&I”, non solo gestione delle diversità e inclusione ma anche “E”: equità dei processi, giustizia, imparzialità, trasparenza nelle procedure di selezione, promozione e percorsi di carriera. E inoltre di “Intersectionality”, termine coniato da Kimberlé Crenshaw, nel 1989 in un trattato circa l’emarginazione delle donne di colore negli Stati Uniti, in cui spiega come alcune dimensioni della diversity siano inseparabili e intrecciate tra loro. Oggi per comprendere ancora meglio la tematica dell’inclusione è necessario attivare processi al fine di esplorare come queste differenze impattino l’esperienza delle persone in azienda.

Ci sono resistenze a considerare l’inclusione, in generale, un valore?

Non ci sono resistenze a considerare l’inclusione un valore, anzi! Le resistenze si trovano all’implementare politiche e processi inclusivi perché sono molto faticosi, onerosi e soprattutto richiedono il cambiamento di integrazione cognitiva dell’esperienza a livello personale (il “modo” in cui ciascuno di noi funziona) e di procedure a livello aziendale. È esperienza di tutti il fatto che quando dobbiamo scegliere con chi lavorare o con chi gestire un progetto, le prime persone che ci vengono in mente sono quelle più simili a noi e con cui, lavorando più spesso, ci capiamo più facilmente e velocemente, ma così perdiamo tutti i vantaggi prima citati di un team “diverse”.

Quali sono gli stereotipi da superare per creare davvero una cultura del rispetto sul posto di lavoro?

Prima ancora che di stereotipi, ovviamente e naturalmente molto diffusi, è opportuno sottolineare che per parlare di rispetto è necessario essere consapevoli che esiste “l’Altro”: un’altra persona diversa da noi (anche se della stessa cultura, genere, età…) che ha pensieri, bisogni e stili di comportamento diversi dai nostri ma non per questo sbagliati e che prestare attenzione a questo è il primo livello del rispetto. Questo sembra ovvio, ma non lo è affatto. Per questo a metà giugno uscirà un nuovo libro di Wise Growth (“La Cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione” di C. Bombelli e E. Serrelli – Guerini Next) che approfondisce proprio il tema del rispetto nella cultura aziendale come la nuova frontiera dell’inclusione. Gli schemi mentali, i bias, che comunque rendono a mio avviso più difficile l’inclusione, sono quello di “affinità”, ovvero la tendenza a circondarci di persone che ci assomigliano, e quello di “benevolenza”, cioè non chiedere alle risorse un maggiore impegno per “rispettare” quelli che crediamo siano i loro limiti (tipicamente utilizzato nei confronti delle neo-madri).

In che modo si può intervenire per creare una cultura aziendale più inclusiva? Con quali approcci?

È necessario intervenire a più livelli. Il primo è coinvolgere e ingaggiare i leadership team affinché la tematica dell’inclusione sia compresa nelle sue opportunità e sostenuta: senza un ingaggio “dall’alto” la trasformazione culturale è molto difficile; questo anche attraverso un opportuno assessment della situazione D&I Aziendale. Successivamente analizzare i processi HR, nelle pieghe dei quali spesso a livello assolutamente non consapevole si nascondono dei meccanismi impliciti di “esclusione”. E naturalmente con un’opportuna formazione; se non si è consapevoli non si può cambiare.

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