Come hanno influito gli sviluppi delle tecnologie sul sistema economico negli ultimi quindici anni e quali sono i trend che si stanno affermando e che caratterizzeranno lo scenario futuro? I cambiamenti, spesso repentini, in ambito tecnologico, influenzano in modo decisivo il mondo del lavoro. Guardando all’ Italia, le difficoltà legate alla carenza delle competenze in ambito ICT, il digital divide tra Nord e Sud Italia da una parte, gli investimenti, positivi, delle multinazionali tech – proprio nel Sud del Paese – e le opportunità offerte dalla diffusione dello smart working, che, in molti casi si è trasformato in “south working”, aprono la riflessione a nuovi potenziali scenari.
Per affrontare questi e altri temi legati a innovazione e digitalizzazione e al suo peso nell’economia abbiamo intervistato il Prof. Francesco M. Sacco, docente di Digital Economy presso l’Università dell’Insubria e co-conduttore, oltre che autore, del programma StartUp Economy di La7.
Le soluzioni economiche e tecnologiche che partono oggi ci aprono parecchi spiragli sul futuro. Quali sono a tuo avviso in questo momento i trend d’innovazione più promettenti?
Partiamo dando uno sguardo complessivo. Nel 2007 il valore in termini di capitalizzazione di borsa delle prime dieci società al mondo era di 5,7 trilioni di dollari, di cui solo 333 miliardi, il 5,8%, era riconducibile a società tecnologiche. Quest’anno, la capitalizzazione di borsa delle prime dieci società al mondo ha superato i 13 trilioni di dollari, ma per l’81% è costituito da società tecnologiche. In quattordici anni, la tecnologia ha creato soltanto in capo alle principali società globali, più di 10 trilioni di dollari di valore. Non ci sono nella nostra storia passata esempi comparabili. La tecnologia oggi è la maggiore fonte di ricchezza e di redistribuzione della ricchezza. Anche perché non si applica soltanto a un particolare settore o applicazione, è soprattutto “general purpose”. In questa enorme trasformazione, il trend principale è costituito sicuramente dall’intelligenza artificiale. Secondo PWC, entro il 2030 il suo impatto supererà i 16 trilioni di dollari. E si accompagnerà a un continuo spostamento verso il cloud computing, lo sviluppo di soluzioni sempre più efficaci per il lavoro e la collaborazione da remoto, anche utilizzando la realtà virtuale e aumentata. E tutto ciò sarà reso ancora più pervasivo grazie al 5G. Naturalmente, questa spinta sempre più capillare della tecnologia renderà la cybersecurity sempre più importante, fino a farla diventare strategica.
Oggi siamo portati a immaginare un futuro tutto digitale, eppure nel nostro Paese lo skill shortage nel settore ICT, la carenza di competenze adeguate alle esigenze di un mercato velocissimo, rischia di penalizzare giovani, imprese e lavoro. È possibile colmare il gap?
Si, lo skill shortage è – e sarà – il problema principale del nostro Paese. Ma prima ancora di essere un problema italiano, è anche un problema europeo perché l’Ue è oggettivamente indietro rispetto agli Usa e alla Cina relativamente alla frontiera della digitalizzazione. Ma, ciò premesso, a sua volta, l’Italia è messa molto male rispetto al resto dell’Europa. Nell’indice DESI, che misura il livello di digitalizzazione dell’Ue, ci siamo riallineati alla media europea soltanto sulla connettività. Nelle altre componenti abbiamo fatto progressi modesti. Ma l’ambito in cui abbiamo fatto meno progressi in assoluto negli ultimi cinque anni è proprio nel capitale umano. Detto ciò, il futuro potrebbe essere migliore. Nel Pnrr italiano il 27% delle risorse, circa 67 miliardi di euro, è destinato alla digitalizzazione. Un’enormità rispetto alla mole degli investimenti del passato. E, finalmente, le competenze digitali, l’Impresa 4.0, la Sanità e il turismo digitale, la ricerca e l’innovazione digitali hanno ricevuto la dovuta attenzione. Per il momento, almeno sulla carta.
I dati evidenziano un digital divide persistente tra Nord e Sud Italia a svantaggio del secondo. Eppure, negli ultimi anni al big Tech stanno investendo in progetti formativi, Academy, proprio al Sud, penso al caso di Napoli. Cosa evidenzia questo fenomeno?
Tutte le altre grandi multinazionali tecnologiche che hanno deciso di investire al Sud (ad esempio, Apple, Microsoft, NTT Data) riportano uniformemente soltanto esperienze positive. Ciò vuol dire che la materia prima “umana” del nostro Sud è molto buona. Servono soltanto migliori condizioni di partenza, più centri formativi, una loro maggiore diffusione, più investimenti. Ma, soprattutto, servirebbero più occasioni di lavoro per permettere alle persone formate di restare poi al Sud e creare una base di accumulazione del capitale umano che faccia poi da volano per creare una nuova fase di crescita economica guidata proprio dalla tecnologia e dalla sua capacità di semplificare e migliorare la nostra vita di tutti i giorni.
In un Sud Italia che si pone non solo ricettivo all’innovazione, ma in grado di stimolarla, cosa manca sul piano delle competenze per essere competitivo?
Nella perfetta ricetta per la crescita economica, le competenze tecniche sono un elemento importante, ma da sole non bastano. Servono anche competenze imprenditoriali e una rete di servizi a supporto dello sviluppo imprenditoriale, come i servizi finanziari e legali evoluti, la presenza di fondi di investimento ma anche di società specializzate capaci di integrare con competenze di nicchia l’offerta delle società tecnologiche. È un humus che si sviluppa per osmosi e per percolazione da esperienze di successo. Ma serve tempo.
Con lo smart working le competenze oggi sono e circolano dove sono le persone. Quello che è stato definito south working può essere un’opportunità per i giovani e il Sud Italia?
Sì e paradossalmente il lockdown ha portato bene in questo senso. Da una ricerca Svimez è emerso che sono 45.000 gli addetti che dall’inizio della pandemia hanno lavorato in smart working dal Sud per le grandi imprese del centro-nord. A questi se ne devono aggiungere circa altri 100mila, includendo le PMI. Pochi, se si pensa che sono circa due milioni i meridionali che sono emigrati al Centro-Nord. Ma già un buon inizio se, anche grazie a incentivi fiscali e politiche del lavoro attive, si potessero usare per ricreare una base di capitale umano di qualità su cui poi andare a costruire per sviluppare un tessuto di competenze e di esperienze al Sud. Si metterebbe un argine alla fuga dei cervelli, si aumenterebbe la competitività delle nostre aziende e – ne sono profondamente convinto – si difenderebbe il tessuto sociale del nostro Paese, migliorando allo stesso tempo anche la qualità della vita dei nostri lavoratori. Varrebbe la pena di provarci.
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