La coperta era corta: con 80 miliardi di interventi anticrisi complessivamente stanziati finora, tra i 25 del decreto di marzo e i 55 di quello sul “Rilancio” finalmente varato ieri dopo infiniti tira-e-molla interni alla maggioranza, il governo Conte ha fatto molto meno di Francia, Germania e Gran Bretagna. Ma ha fatto quel che poteva, privo com’è di cassa e della leadership politica per raccoglierne di più, sia sui mercati sia dall’Europa, quando si tratterà (ben presto) di trovare materialmente i soldi per finanziare tutte le misure varate ieri.
E dunque, nello scegliere fior da fiore quel che poteva essere fatto e quel che andava tralasciato, disponendo di una coperta corta, il governo Conte 2 ha scelto di lasciare scoperti i piedi su cui camminare nel futuro anteriore e coprire invece l’interesse del consenso di breve termine, quello che forse andrà presentato al cambiavalute delle prossime elezioni, soprattutto se il buon senso politico del Paese si risveglierà e riporterà gli italiani alle urne prima della naturale scadenza della legislatura.
Dunque il vero “rilancio” cui allude il nome del decreto è quello delle possibilità della maggioranza, ma soprattutto personali del premier, di raccattare consensi tra gli italiani. Quelli che sono capaci di contare i benefici immediati e diretti delle misure ma che forse non avranno la competenza per ricollegarli alla carenza – che questo governo non cura – di interventi strutturali sui grandi investimenti pubblici e sulle reti che abilitano la ripresa produttiva.
Ci verrà detto che quelli e queste verranno fatti in seguito, con i fondi europei, fondi diversi da quelli emergenziali. Speriamo: finora non è mai successo.
Ma, certo, questo non è un decreto per giovani: è un decreto per elettori, soprattutto vecchi.
Rivelatrice quella metafora, il “mosaico”, evocata da Patuanelli per descrivere in sintesi durante la conferenza stampa con Conte, Gualtieri, Speranza e Bellanova, il documento appena approvato. Un mosaico di interventi, alcuni anche ineludibili, per carità – dalla cassa integrazione rifinanziata per altre nove settimane al maxi-abbuono dell’Irap di giugno per le imprese, dal differimento delle scadenze fiscali fino a settembre al rinnovo dei contributi per gli autonomi meno ricchi – ma comunque di breve termine e di natura emergenziale.
Ovvio, si deve ripetere: degli interventi d’emergenza non si può fare a meno, e dunque ben vengano. Manca del tutto però un pensiero profondo su come rilanciare l’economia del Paese. E in questo senso, purtroppo, il decreto non funzionerà.
Dal turismo – che viene accarezzato con un modesto bonus famiglie ma non trova nelle 505 pagine nulla che lo conforti sul termine medio-lungo – alla manifattura, lasciata povera com’è di infrastrutture materiali e digitali, non c’è nulla di incisivo. C’è una beneficiata per l’edilizia – che, per carità, ne aveva disperato bisogno – col maxibonus del 110 per cento per le ristrutturazioni energetiche ed antisismiche dei fabbricati. Ma anche questa misura si limita ad ampliarne altre esistenti che sono già state vastamente utilizzate e potrebbero anche non essere così gettonate come forse il governo si augura.
Dovendo pagare un pegno di cui non ha colpa diretta, il pegno della malafinanza che ha dissanguato le casse pubbliche, questa compagine governativa ha puntato insomma sull’immediato, e al massimo sul breve termine. Ed ha messo se stessa in mano al fato, per chi ci crede: perché è chiaro che se la pandemia dovesse davvero esaurire presto i suoi effetti malefici almeno in Italia e permettere una più dinamica ripartenza dell’economia manifatturiera, quella che da sempre salva il nostro Paese nelle fasi critiche, resterà la memoria delle piccole ma tante elargizioni di ieri prima che emerga la gravità delle lacune e sfumerà la consapevolezza delle omissioni commesse.
Se invece i danni della pandemia si faranno sentire più a lungo, ripetere o prorogare questo pioggerellina di “pochi soldi per tanti se non per tutti” sarà impossibile e si rivelerà a chiunque con chiarezza che è stato perso altro tempo e un’occasione preziosa per avviare un’autentico rilancio infrastrutturale e produttivo del Paese.
Una nota a margine, la commozione autentica di Teresa Bellanova sulla temporanea regolarizzazione dei braccianti decisa ieri, misura controversa e destinata a suscitare polemiche – almeno su questo, l’opposizione sa come si fa – ma in fondo tra le meno contestate dagli italiani. Le brevi lacrime della ministra, lacrime proletarie – bracciante è stata lei stessa, da ragazza – cancellano le lacrime aristocratiche di un’altra ministra, Elsa Fornero, che le versò in un’altra storica conferenza stampa annunciando la sua draconiana legge sulle pensioni. Una lacrima lava l’altra, il Paese non ne ha più.