L’ecolocalizzazione è un’abilità degli animali come pipistrelli e balene, che emettendo suoni riescono a capire, in base all’eco che torna loro, dove siano posizionati determinati oggetti nello spazio. Anche alcuni umani ciechi usano tecniche simili e proprio partendo da questo assunto è stata condotta una ricerca che ha preso in considerazione 12 partecipanti con cecità diagnosticata durante l’infanzia e 14 vedenti.
Secondo un recente studio pubblicato su Plos One, con un addestramento sufficiente, la maggior parte degli esseri umani può imparare a ecolocalizzare con il solo uso della lingua che servirà per “fare clic”. Allo stesso modo, gli umani possono interpretare gli echi che ritornano dall’ambiente circostante. Per capire ciò, i ricercatori hanno condotto uno studio di 10 settimane durante le quali hanno insegnato ai partecipanti come superare gli ostacoli e riconoscere le dimensioni e l’orientamento degli oggetti nello spazio proprio grazie al “rimbalzo” del loro clic.
I risultati della ricerca
I risultati dello studio sono stati pubblicati nel 2021 e hanno aperto una nuova prospettiva a tantissime persone cieche dalla nascita. Nonostante sia infatti una tecnica che potrebbe migliorar loro la vita, pochissimi ciechi sanno come attuarla. “Non riesco a pensare a nessun altro lavoro con partecipanti ciechi che abbia avuto un feedback così entusiasta”, ha dichiarato la psicologa Lore Thaler dell’Università di Durham nel Regno Unito non appena sono stati pubblicati i risultati dello studio. Nel corso della ricerca sono state effettuate 20 sessioni di formazione, della durata di circa 2 o 3 ore, al termine delle quali i ricercatori hanno scoperto che i partecipanti non vedenti e vedenti, sono tutti migliorati considerevolmente nell’ecolocalizzazione.
I partecipanti sono stati addestrati a navigare in labirinti virtuali usando solamente i clic della bocca. In uno degli ultimi test, le collisioni sono state ridotte in maniera importante, a dimostrazione che la tecnica è stata ben recepita. “È importante sottolineare che quando abbiamo quantificato il grado in cui i partecipanti sono migliorati dalla sessione 1 alla sessione 20 nelle loro capacità in ciascuno dei compiti, non c’era alcuna prova di un’associazione tra età e prestazioni nei compiti pratici” hanno scritto gli autori.