Che cosa è l’economia? Una scienza? Una filosofia? Una branca numerica della sociologia? O la matematica applicata agli scambi tra le persone e ai rapporti tra gli Stati? Probabilmente un po’ tutte le cose. Quello che è certo è che nel corso degli anni il pensiero economico ha preso strade diverse, talvolta contrapposte, talvolta complementari.



Negli ultimi decenni del secolo scorso, per esempio, hanno avuto largo seguito le teorie basate sui modelli matematici, spesso collegati tuttavia a speculazioni finanziarie approfittando delle increspature dei mercati. Poi sono diventate di moda le teorie comportamentali, costruite soprattutto sugli equilibri di razionalità (o di irrazionalità) dei soggetti economici. Mentre di fronte alle crisi, come quella del 2008 o quella che stiamo ancora vivendo legata alla pandemia, hanno ritrovato vigore le teorie monetarie che affidano al controllo della moneta gran parte delle politiche per ritrovare percorsi di crescita.



Ma c’è un pensiero economico spesso nascosto, che ha le sue radici nella filosofia greca e nel pensiero cristiano, un pensiero economico che solo sporadicamente è riuscito ad affermarsi nel dibattito pubblico e che tuttavia costituisce un elemento importante in una fase complessa e tormentata come l’attuale.

È il pensiero che è riassunto nella definizione di “economia civile“, un filone di pensiero che parte da lontano e che è stato messo in chiaro nella seconda metà del Settecento dall’abate Genovesi autore del saggio “Lezioni di commercio o sia di economia civile”.



Proprio il filo conduttore dell’economia civile è quello che guida tre economisti, Luigino Bruni, Paolo Santoni, e Stefano Zamagni nel loro libro “Lezioni di storia del pensiero economico” (Ed. Città nuova, pagg. 360, € 25), un saggio che raccoglie le lezioni svolte negli ultimi anni proprio nella scuola di Economia civile che ha visto i tre autori tra i protagonisti.

“La tradizione dell’economia civile – si spiega nell’introduzione – eredita la filosofia aristotelica del bene comune, la tradizionale delle virtù civiche romane, passa per l’esperienza del monachesimo del Basso Medioevo (domenicani e francescani), dell’Umanesimo civile della prima metà del XV secolo, in un certo senso (oppositivo) anche per la Controriforma, fino ad arrivare alla scuola napoletana di Genovesi e quella milanese di Verri e Beccaria del XVIII secolo. Ma la tradizione ebbe anche un seguito nei secolo XIX e XX con autori cattolici, liberali, socialisti.”

Lo spirito degli autori del libro è quello di ridare spazio e dignità ai filoni di pensiero che, almeno in parte perché italiani e quindi al di fuori dei grandi dibattiti economici, non hanno mai avuto spazio a livello internazionale.

Eppure le analisi di Vilfredo Pareto così come di Giorgio Fuà avrebbero meritato ben più attenta considerazione anche da parte della stessa accademia italiana in cui per anni hanno invece dominato le teorie dell’efficientismo manageriale e della logica quantitativa. Per poi scoprire, soprattutto negli ultimi anni, la necessità di una visione multidisciplinare unita a una capacità critica capace di concentrarsi sulla dimensione etica del vivere sociale.

La sfida è allora quella di uscire dal dilemma illusorio tra Stato e mercato per affrontare invece la prospettiva di un bene comune che faccia i conti con la concretezza delle persone. Un mercato inclusivo quindi, un mercato non come conflitto, ma come campo aperto alla libertà e alle potenzialità di ciascuno. Un mercato in cui la società si senta protagonista. Con un’economia che sia anche segno di civiltà.

Una storia del pensiero economico (come quella di Bruni, Santori e Zamagni) che porti in primo piano questi valori può essere quindi un importante filo d’Arianna nel labirinto della complessità, e delle illusioni, del mondo attuale.

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