Mario Draghi, nella conferenza stampa seguita al Consiglio europeo di Versailles, ha detto che “non siamo assolutamente in un’economia di guerra, ma è bene prepararsi”. Cosa può significare tutto questo? «L’economia di guerra – risponde Mario Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino – è stata specificatamente trattata da Luigi Einaudi, il più noto e seguito dei liberisti italiani, il quale ammetteva che in stato di guerra i prezzi possano non essere fissati dal mercato, ma dallo Stato.



Non dobbiamo dimenticare che Draghi è anche un professore di economia. Pertanto ritengo che il Premier pensasse a questo: al fatto, cioè, che lo Stato deve prepararsi all’eventualità di dover fissare dei prezzi massimi».

Un intervento solo sul prezzo o anche sul razionamento dei beni?

Qualora non bastasse l’arma dei prezzi si potrebbe pensare al razionamento, agendo quindi sulle quantità che possono essere acquistate. Non va trascurato poi un dettaglio: Draghi ha parlato subito dopo un Consiglio europeo del quale si è detto che c’è stata compattezza e unità. È presumibile quindi che discorsi sulla stessa linea siano stati fatti tra i vari leader a Versailles. 



Questo vorrebbe dire che ogni Paese fisserebbe i suoi prezzi o che si possono addirittura ipotizzare prezzi fissati a livello europeo?

Credo che lo scenario più plausibile sarebbe quello della libertà per ogni Paese, su alcuni beni fondamentali, di fissare un suo prezzo entro una gamma limitata intorno a un prezzo base europeo. Va anche ricordato che negli ultimi tre anni, complice la pandemia, stanno emergendo di fatto delle nuove forme di concertazione a livello europeo. Penso che in questa fase la politica energetica non possa più essere lasciata in mano soltanto ai singoli Stati, ma dovrebbe quanto meno essere coordinata. Per esempio, sulle scorte si può fare un ragionamento europeo, ma occorre anche avere le infrastrutture che consentano lo scambio tra i vari Paesi, di modo che il coordinamento possa effettivamente funzionare.



A Versailles si è parlato dell’ipotesi di fissare un tetto al prezzo del gas. Pensa che questo tipo di politica si possa applicare facilmente oltre il settore energetico?

Credo che non possa essere semplice, ci sono vari gradi di complicazione. Intanto dovremo guardare alla questione alimentare: la mancanza dei prodotti russi e ucraini pone un problema di squilibrio per i mercati cerealicoli mondiali che si proietta anche sul 2023. Ma già nelle ultime settimane sono giunti segnali da diverse aree dell’Africa di carenza di cereali che arrivavano direttamente dall’Ucraina. Questo rischia in tempi non troppo lontani di creare tensioni in alcuni Paesi.

Alcuni dei quali sono quelli cui abbiamo chiesto di fornirci più gas per cercare di ridurre la dipendenza da quello russo…

Sì, anche perché in Italia negli scorsi anni non è stato aumentato, ma anzi diminuito, il numero di rigassificatori. Il problema del cibo, come ricordato nell’ultimo numero dell’Economist, per noi è tutto sommato gestibile, perché la quota di spesa per beni alimentari sui consumi complessivi delle famiglie non è elevata come in Africa e possiamo anche avere delle soluzioni parziali che lì non ci sono (per esempio, mangiare meno cereali e più patate). Non dobbiamo dimenticare che le Primavere arabe erano scoppiate proprio per l’aumento del prezzo del grano.

L’Europa dovrà quindi prestare attenzione a quello che avverrà alla sua frontiera meridionale, oltre che a quella orientale.

Assolutamente sì. Abbiamo sempre considerato il problema della frontiera meridionale di breve periodo, legato alle ondate di migranti. La verità è che bisognerebbe creare qualcosa che consenta di generare produzione e occupazione nei Paesi africani.

Servirebbero una politica e un fondo comune europeo per questo?

Sì. Servirebbe una sorta di Next generation Eu per l’Africa. Altrimenti lo faranno i cinesi. Si può pensare anche di sfruttare le grandi aree desertiche per la produzione di energia con il fotovoltaico, oggi che ci sono mezzi tecnici che consentono di evitare un’eccessiva dispersione nel trasporto. 

Crede siano necessari fondi europei anche per la situazione creatasi dopo la guerra in Ucraina?

Probabilmente sì. Oggi la Bce non può prestare denaro all’Europa, dovrebbe poterlo fare consentendo a Bruxelles di avere risorse per progetti comuni.

L’Europa potrebbe nel frattempo agire sulla Pac, aumentare l’import di materie prime da altre aree, ma c’è il rischio di pagarle di più. Avremo quindi un’altra fiammata inflattiva che alimenterà quella in atto?

Sì, il suo impatto dipende dalla quota che occorre sostituire e dal maggior prezzo da pagare. Per fare un esempio, se per un determinato bene va sostituita una quota di importazione pari al 10% pagando un prezzo superiore del 10%, alla fine l’impatto sul costo complessivo del bene sarà pari all’1%. 

I tempi dell’Europa possono essere a volte lunghi. Nell’attesa che politica economica va fatta in Italia?

Per rispondere compiutamente bisognerebbe sapere se davvero andiamo verso l’economia di guerra in cui occorre fissare i prezzi oppure no. Credo che lo sapremo tra due-tre settimane, in base all’andamento dei negoziati tra Russia e Ucraina. Per il momento sono lievemente stupito dal ritardo nell’azione del Governo rispetto al forte e repentino aumento dei prezzi dei carburanti, nonostante le parole dure del ministro Cingolani.

Secondo lei, bisognerebbe tornare a fissare i prezzi dei carburanti a livello statale come in passato?

Anzitutto andrebbero convocate le compagnie petrolifere. In secondo luogo, si può anche ridurre il carico fiscale sui carburanti. Poi si può anche pensare di intervenire sui prezzi, senza passare dalla libertà di fissarli a una rigidità totale, ma tramite soluzioni intermedie. Per esempio, si può indicare un limite massimo. Oltre che sui carburanti è poi bene che l’esecutivo cominci a studiare la situazione e le eventuali soluzioni da adottare per il settore agroalimentare.

(Lorenzo Torrisi)

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