“Qualcuno dovrà pure soffocare uno sbadiglio e spiegarci perché in Italia a nessuno importa né della pessima qualità dell’insegnamento, né dell’altrettanto pessima preparazione dei nostri diplomati, come risulta da tutti i confronti internazionali degli ultimi anni”. Il tono, deciso e appassionato, di Angelo Panebianco è quello di chi ha veramente a cuore il problema scolastico. Anzi, ha a cuore le persone che vivono nella scuola: ragazzi e professori. Non si abbandona a discorsi astratti o retorici, ma va al cuore del problema: la qualità della scuola non può essere calata dall’alto, deve emergere come domanda della società.
Questa domanda, però, sembra non esserci, e bisogna capire il perché. “C’è innanzitutto un problema demografico: un paese che invecchia e che fa molti meno figli si preoccupa meno della scuola rispetto un paese giovane che fa tanti figli. Ma c’è poi un elemento più grave, che ha a che fare con l’atteggiamento generale, tollerato e sfortunatamente condiviso da molti nostri connazionali. Nella scuola (ma lo stesso vale anche per l’ambito della pubblica amministrazione) quello che conta non è la qualità del servizio, ma la qualità delle condizioni di chi ci lavora. L’effetto finale, l’impatto sull’utenza viene dopo nella scala di valori generale. Certamente viene dopo nella scala di valori della classe politica, per la semplice ragione che le istituzioni sono in mano a gruppi sindacali o di altro tipo che hanno influenza sulla politica; l’utenza, invece, è dispersa, disorganizzata e non ha domande chiare”.
Esempi recenti danno l’idea dell’indifferenza con cui sono state accolte riforme deleterie per la scuola: “nel 1990 venne fatta una riforma della scuola elementare, il cosiddetto modulo, che portò ad avere tre insegnanti al posto di uno. Quella riforma venne fatta esclusivamente per ragioni occupazionali, perché si temeva che con il declino demografico ci fossero troppi insegnanti elementari in esubero. Quando venne approvata quella riforma, non importò a nessuno dell’impatto sull’utenza, dell’effetto sull’educazione dei bambini (anche se naturalmente la retorica diceva che tre insegnanti erano meglio di uno, che questo avrebbe arricchito le personalità e altre chiacchiere simili); ma la ragione vera della riforma elementare del ’90 fu che aumentare il numero di maestri in una classe serviva a fini occupazionali”.
A questa situazione di colpevole indifferenza della società si contrappone la nota stonata delle preoccupazioni moralistiche, che tentano di compensare la mancanza di una vera tensione educativa: “ho sempre trovato divertente – dice ironico Panebianco – l’esistenza di un’associazione di genitori che si preoccupano del fatto che venga detta una parolaccia in televisione. Tali associazioni però si disinteressano totalmente del fatto che, per esempio, vengano reclutati dei precari nella scuola senza concorso: come se avere un insegnante impreparato non sia più dannoso per i propri figli che non ascoltare una parolaccia alla tv”.
Ed è proprio sulla qualità degli insegnanti che bisognerebbe agire in maniera concreta, “reclutandoli in modo molto serio, incentivando il miglioramento della qualità dell’insegnamento del singolo insegnante, con prospettive di carriera e anche di remunerazione maggiore quanto migliori sono i risultati che il singolo insegnante è in grado di produrre”. Ma anche in questi ambiti i freni sono pesanti: “tutto questo non esiste, anzi, è combattuto ferocemente dalle lobby che contano nel mondo della scuola”.
Al tema della qualità si lega strettamente il tema della libertà di scelta, che si può realizzare solo attraverso un passaggio imprescindibile: abolire il valore legale del titolo di studio. “Anche qui vale lo stesso problema – insiste Panebianco -: il valore legale non può essere toccato perché coloro che lavorano nelle istituzioni educative non vogliono. Perché quei pochi che hanno scritto polemicamente di scuola hanno puntato l’indice sul valore legale del titolo di studio? Perché togliendo il valore legale, improvvisamente verrebbe meno l’immagine della scuola come “diplomificio”, come produttrice di pezzi di carta che hanno valore legale. E diventerebbe invece centrale e strategico che cosa la scuola fornisce, che tipo di formazione la scuola offre ai ragazzi”. Allora potrebbe smuoversi qualcosa e “una parte della società italiana, magari piccola all’inizio, comincerebbe ad interrogarsi sulla qualità dell’insegnamento e metterebbe in moto possibilità di scelta. Se salta il valore legale del titolo di studio, il panorama diventa molto più variegato, molto più competitivo e certamente una parte almeno della società italiana che si è fin qui disinteressata del problema della qualità dell’insegnamento per i suoi figli comincerebbe a porsi qualche domanda”. Si tratta di una libertà di scelta che deve naturalmente essere sostenuta anche dal punto di vista economico. “Occorrerebbe un sistema di buoni scuola generalizzato; non serve tanto il finanziamento agli istituti, quanto il finanziamento alle famiglie. Dovrebbero valere anche per l’università, così da poter dare la possibilità alle persone di muoversi, scegliendo le università che prediligono”.