Il problema delle utilities deve essere affrontato, a parer mio, con la mente sgombra dall’ossessione monofonica dell’economia. Ossia nell’umile certezza che esistono diversi strumenti per raggiungere il fine dell’economia, che non è il profitto, ma la libertà della persona. E questo perchè la libertà è il più importante dei beni pubblici, in quanto pone al centro la volontà del soggetto e il suo sistema di doveri, che deve orientare le scelte assai più del sistema dei diritti.

Solo se la libertà è libertà nei doveri – rispetto alla coesione sociale e al miglioramento della qualità della vita – essa è un bene pubblico. Questo è il mio assunto di fondo. In questo senso il processo di liberalizzazione può incontrare virtuosamente la strumentazione materiale dei beni pubblici che sono definiti come infrastrutture. Le infrastrutture sono gli asset di una crescente integrazione di funzioni necessarie per lo sviluppo sociale sostenibile, dove, unitamente alla progettazione ingegneristica e sociologica, si pone in essere una capacità d’integrazione delle pulsioni sociali di tipo simbolico collettivo, in grado di soddisfare le volizioni e il desiderio di qualità della vita, diffuso nelle società a consumo avanzato.

In questo senso, le infrastrutture portano con sé un duplice significato e un duplice patrimonio di beni: beni materiali e stock di capitali fisici, da un lato; beni simbolici e stock di significati psichici collettivi, dall’altro.

Per tale motivo esse sono un problema e una sfida per le poliarchie moderne. Il problema dell’allocazione dei diritti di proprietà in merito alle utilities, che sono un segmento degli asset infrastrutturali, diviene sempre più cruciale. La liberalizzazione diviene una sfida virtuosa se si risolve innanzitutto il seguente dilemma: La proprietà privata è l’unica conseguenza proprietaria della liberalizzazione? No. Vi possono essere, infatti, allocazioni dei diritti di proprietà di tipo collettivo di piccoli gruppi cooperativi – come è in tutto il mondo – oppure di tipo sì privato o collettivo di piccoli gruppi, ma, attenzione, con finalità non di profitto, salvo che per il mantenimento della continuità del non profit – appunto – uguagliando la funzione d’utilità della riproducibilità aziendale con quella della soddisfazione dei bisogni di consumatori senza aggravi di costi e senza produzione di rendite e di profitti capitalistici. Oppure, ancora, vi possono essere forme di allocazione di risorse proprietarie sub specie d’imposizione coatta, come è tipico di tutte le régies nationales o imprese pubbliche che dir si voglia (perché ogni impresa pubblica si comprende come segmento della pratica e della teoria della finanza pubblica); ma allora il problema della gestione diviene cruciale, per impedire che tali forme di proprietà divengano allocazioni a favore delle classi politiche anziché delle tecnocrazie che hanno come fine il raggiungimento legal-razionale del bene comune.

Quindi vi possono essere forme diverse di allocazione dei diritti di proprietà. L’ esperienza internazionale dimostra che questa forma di allocazione è possibile. Il tema cruciale, naturalmente, è quello degli asset non liberalizzabili, ossia dei monopoli naturali o tecnici. Il meccanismo oggi più diffuso per massimizzare l’utilità sociale è quello di distinguere l’allocazione proprietaria del monopolio naturale non liberalizzabile, dalla gestione tecnica e sociale del medesimo rispetto ai servizi che offre ai consumatori, gestione che può essere sottoposta, secondo procedure di gare, alla liberalizzazione. Essenziale è che si usi, anche in questo caso, il medesimo approccio polifonico e che alla gara partecipino diverse forme di proprietà.

La spinta alla liberalizzazione dei mercati si scontra, nel settore dei monopoli locali, con un’asimmetria tra i dominanti e i dominati, i quali vogliono abbattere le asimmetrie per giocare nei mercati che via via vengono aperti dallo Stato che abbatte il monopolio togliendo le barriere all’entrata. Oggi le asimmetrie sono tra spazio comunitario e spazio transatlantico da un lato e spazi nazionali dall’altro, dove le autorità indipendenti faticano a trovare un loro ruolo in questa trasformazione della sovranità e in questa stratificazione di modelli teorici, tanto dei mercati e quindi delle filosofie anti-trust, quanto della concorrenza, della sua possibile misurazione e degli interessi medesimi dei consumatori. Interrogarsi su questo insieme di problemi sarebbe di interesse non indifferente, anche alla luce dei temi qui discussi.

Voglio solo sollevare un aspetto. Un tema che un tempo era assai affrontato sul piano teorico dai politologi e dai pochi studiosi a metà tra diritto ed economia, era quello dell’indipendenza delle Autorità… indipendenti. Il problema è noto: è possibile che il regolatore sia catturato dal regolato – ed esiste su ciò una letteratura di grande livello e per lo più ignorata, ma di enorme interesse. Di norma chi regola settorialmente e in società dense e piccole, dove regolatore e regolato sono vicini, quasi gomito a gomito, è catturato facilmente dal soggetto che dovrebbe essere regolato. Ma non sempre ciò accade. Vi sono casi in cui i regolatori sono catturati da coloro che premono per ridurre le asimmetrie, o meglio, superare le barriere all’entrata, spesso senza riguardo per i consumatori o con scarsi esiti in merito alla difesa di questi ultimi. Un tema, questo, di grande attualità qui in Italia – come gli altri, del resto – dove ci si appresta a riformulare il quadro della regolazione e quindi delle stesse Autorità indipendenti.


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