Nelle public utilities le soluzioni più interessanti sono venute, finora, dai Paesi dove è più netta l’alternativa tra Stato e mercato. In Gran Bretagna, dal 2003 l’intera rete ferroviaria è posseduta e gestita da una non-profit che investe 4.500 milioni di euro l’anno; i regolatori diffondono periodicamente indicatori sulla qualità del servizio dei diversi gestori e su tali indicatori utenti, autorità locali e investitori basano le proprie scelte; imprese private ad azionariato diffuso competono ad armi pari nei servizi aperti al mercato. Qualcosa si muove anche in Italia, nonostante gli esiti incerti di quindici anni di riforme. Il governo si è impegnato ad ampliare lo spazio di scelta per clienti e consumatori, nei servizi pubblici locali e soprattutto nelle “parti alte” della filiera dell’energia, particolarmente restie a perdere posizioni dominanti; alcune regioni, come la Lombardia, garantiscono maggiore libertà di scelta attraverso la separazione tra gestione della rete ed erogazione del servizio, avviano osservatori della qualità dei servizi, sostengono gli sforzi di aggregazione tra imprese locali.
Un settore da studiare, quindi, senza irrigidirsi in modelli unici. Le esperienze di altri Paesi sottolineano la necessità di permettere sperimentazioni, a livello locale e nazionale, per ottenere efficienza di gestione e mantenere la missione di servizio pubblico. Anche in settori come l’energia elettrica, l’acqua, le ferrovie, il trasporto pubblico locale, il gas, i rifiuti, non diversamente dalla sanità o dall’istruzione, c’e’ spazio per un’economia sussidiaria che metta al centro il cittadino. Con quali criteri? Ecco cinque spunti di riflessione e di proposta.


Libertà di scelta
Occorre innanzitutto creare le condizioni per una reale libertà di scelta. L’utente, se sostenuto da adeguata informazione, è il miglior giudice di prezzi e qualità e la possibilità di scelta dell’utente stimola le imprese a dare il meglio. Alcune reti continuano ad essere un monopolio naturale, ma in diverse attività ci può essere concorrenza nel mercato o possibilità di concorrere alle scelte di affidamento temporaneo. Nei servizi pubblici il mercato non fa paura, quando funziona; anzi, diviene un fattore virtuoso perché una reale libertà di scelta tutelerebbe proprio i più deboli.

Più sistemi sono possibili

Dove non si può introdurre libertà di scelta, come limitare il potere del monopolista? La risposta tradizionale, in Italia e in Europa, è stata la gestione diretta dei monopoli da parte dello Stato o dei Comuni, con alcuni meriti, ma anche con pesanti ripercussioni su costi, quantità e qualità dei servizi. Gli Stati Uniti, e più recentemente Paesi europei, hanno dato spazio al binomio monopolista privato-ente regolatore pubblico. L’esperienza britannica conforta sull’esito di tale direzione, se non ridotta a parole d’ordine e se società e politica sanno procedere con aggiustamenti successivi. Ma non tutto si risolve nell’alternativa tra enti pubblici e imprese private regolate. Le infrastrutture non si sono sviluppate solo grazie allo Stato e la capacità d’impresa non è stata solo del for-profit. Dove la libertà non si è potuta esercitare nella scelta del fornitore, si è esercitata nelle modalità di offerta del servizio: la storia delle pubbliche utilità, nei diversi Paesi, ha visto la compresenza di investitori privati, imprese municipali, cooperative di utenti, partnership pubblico-privato, organizzazioni not-for-profit. Le nazionalizzazioni sono avvenute solo in Europa e solo nei decenni centrali del novecento. Questo è un settore inaspettatamente ricco di modelli.

Più informazione

La regolamentazione delle attività gestite in monopolio non si attua solo con regole di pricing e di accesso alle reti. Più che l’emanazione di regole minuziose, serve uno sforzo di raccolta, elaborazione e diffusione delle informazioni sul livello di servizio offerto e sulla qualità tecnica dei diversi gestori; la costruzione di un numero ristretto di indicatori per ciascun servizio, con cui poi effettuare una comparazione nazionale o internazionale tra monopolisti impegnati nello stesso servizio. Gli utenti devono sapere come sono serviti. Se vi è qualche grado di concorrenza i consumatori saranno più liberi di scegliere, altrimenti, attraverso opportuni sistemi di policy, potranno giudicare chi sceglie per loro. Infine, gli enti impegnati negli affidamenti potranno contrastare l’inefficacia di gare aperte solo formalmente, migliorando la selezione e il controllo del vincitore.

Le reti, patrimonio del territorio

I fattori legati ai monopoli naturali (investimenti lunghissimi, contratti di servizio incompleti, mercati secondari imperfetti) fanno sì che le imprese responsabili dei grandi investimenti nelle infrastrutture, reti ed impianti, costituiscano la parte del settore che più difficilmente viene esposta alla valutazione e alla scelta degli utenti. Come fare spazio alla libertà di scelta e di iniziativa? In generale, e con soluzioni diverse da settore a settore, è necessaria la separazione tra sviluppo della rete ed erogazione operativa del servizio, per aprire quest’ultima attività alla scelta del cliente finale. Resta aperto il problema delle condizioni di accesso alla rete e, soprattutto, dei criteri con cui vengono decisi gli investimenti di estensione, manutenzione, ammodernamento. Da una parte, la natura pubblica della rete non coincide necessariamente con la proprietà pubblica. Esistono buoni motivi di insoddisfazione nei confronti delle imprese statali o comunali: costi ingiustificatamente alti, lentezza negli investimenti, scarsa attenzione all’utenza e, talvolta, cura di interessi particolari. D’altra parte, le imprese for-profit possono ben servire l’interesse pubblico nei settori aperti alla concorrenza, ma nella gestione monopolista delle reti la qualità del servizio e gli stessi recuperi di produttività sono spesso deludenti. In altri contesti nazionali tra le forme for-profit si segnala la public company specializzata nella gestione della rete, che richiede una verifica realistica della forza, indipendenza e capacità dei regolatori. Le reti costituiscono un patrimonio del territorio al servizio del quale sono costruite e sono determinanti per la prosperità e lo sviluppo della popolazione. Le esperienze internazionali mostrano che gli investimenti infrastrutturali rappresentano un ambito privilegiato di azione delle non-profit, di provenienza privata o pubblica; in Italia la forma che meglio si presta a tentativi in questa direzione sono le fondazioni.

Il non-profit nelle utilities

Forse è una notizia: il non-profit esiste e funziona non solo nei servizi alla persona, ma anche nelle utilities, caratterizzate da investimenti enormi e requisiti tecnici stringenti. Ci sono le non-profit di tipo privato: Glas Cymru-Welsh Water dal 2001 offre il servizio idrico a più di un milione di utenti gallesi, è leader nel livello di servizio, fa outsourcing con i migliori fornitori specializzati, trasferisce dividendi ai consumatori con tariffe ridotte e si espone alla disciplina del mercato finanziario per la raccolta del capitale di debito. O la già citata Network Rail, creata nel 2003 in seguito al grave dissesto della privatizzata Railtrack, che continua a ricevere sussidi pubblici ma ha smesso di essere in perdita. Le non-profit utilities presentano forme societarie diverse, ma alcune caratteristiche comuni: re-investimento degli utili, diritti di proprietà non trasferibili, indebitamento elevato ma sostenibile (date le caratteristiche del settore), manager specializzati, utenti che partecipano alla governance. Insomma: principi di efficienza aziendale e insieme aderenza ad una missione di servizio pubblico. In Italia c’è spazio per sperimentazioni in questa direzione; le fondazioni, “capitale inalienabile dedicato ad uno scopo”, sono il candidato naturale.


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